VIAGGIAMO SULLE ALI DELLA MISERICORDIA

Il nostro intento e' quello di condividere l'amore del Signore e la maternità di Maria che hanno per tutti noi anche attraverso l'organizzazione di pellegrinaggi al santuario dell'Amore Misericordioso e da alcuni anni anche a Medjugorje.



Per informazioni e contatti scrivere a:

FAUSTOBERTILLA@GMAIL.COM



CELL. 349/1009626

martedì 15 aprile 2014

LA STANZA AL PIANO SUPERIORE

Proseguiamo ad approfondire
questa Settimana Santa.
Leggendo i racconti della passione, si parla
di un’altra casa, oltre a Betania, in cui Gesù
si è sentito accolto in quelle ultime ore.
Una casa particolare, rimasta segreta, ampia e
spaziosa, addobbata con tappeti, fa notare Marco,
preparata apposta per Gesù.
Gesù che si appresta a morire.
La città è in fibrillazione per la pasqua ormai imminente,
la più solenne delle feste ebraiche.
Migliaia di pellegrini sono saliti a Gerusalemme.
Gli apostoli ignari, ancora gongolano per gli eventi
della risurrezione di Lazzaro.
L’ingresso trionfale a Gerusalemme li ha caricati a mille.
L’idea che la situazione possa precipitare, ora, neppure li sfiora.
Un po’ come succede a noi, quando, tutto va bene siamo
sereni, pieni di vita e pensiamo solo a divertirci, per poi
appena arriva qualche problema, cadere nella disperazione.
Gesù dice che, dobbiamo essere sempre pronti.
Solo Gesù sa.  E Giuda.
Le cose non stanno affatto andando bene; i sadducei
stanno cercando un’occasione per ucciderlo.
I farisei sono urtati dalle sue continue provocazioni.
La folla che lo ha acclamato e seguito in Galilea,
qui in Giudea non si lascia coinvolgere più di tanto.
I suoi apostoli, non hanno capito nulla, poveretti.
Gesù sa che la sua missione è fallita.
L’uomo non accetta il nuovo volto di Dio.
Odio e incomprensione stanno crescendo.
I sadducei vogliono risolvere in fretta l’affare Gesù,
soprattutto dopo l’eclatante e inopportuna
risurrezione di Lazzaro.
Presto prima di pasqua.
Gesù sa che quelle potrebbero essere le ultime ore.
Prende una decisione; lascia Betania e decide di cercare
un luogo a Gerusalemme dove celebrare una cena.
Una cena d’addio, pensa.
I suoi, invece, non sanno proprio di cosa si tratti.
La gente, dentro le mura, è tutta presa dai preparativi.
Si tratta in quell’ultimo giorno prima di pasqua,
di togliere tutto il lievito presente entro le mura,
come chiesto a Mosè, (Esodo 13,7).
Tutto ciò che può fermentare, deve essere trovato ed eliminato.
Il lievito è il simbolo del male, il simbolo dell’orgoglio,
dell’arroganza, che va bruciato per poter celebrare il passaggio;
il lievito è l’immagine dell’inclinazione cattiva.
Per i sette giorni seguenti, non si potrà mangiare pane lievitato,
nelle case degli ebrei, come prescrive la Legge, (Deuteronomio 16,3-4).
Anche Gesù, considerato lievito malvagio, dev’essere tolto di
mezzo e allontanato dalla città per non contaminare la pasqua.
Leggete se volete il Brano di Marco 14,12-16
L’agnello pasquale va consumato dentro le mura della
città, i pellegrini sono autorizzati a mangiarlo fuori,
visto il gran numero di persone giunte a Gerusalemme.
Si tratta di trovare una sala adatta, una stanza pronta.
Gesù manda due discepoli e affida loro il compito di
contattare una persona, un tale, conosciuto dai discepoli.
Chi è questo tale?
Alcuni scrittori giungono a immaginare che la grande
stanza addobbata sia di proprietà di un discepolo di Gesù,
appartenente alla classe sacerdotale, che abita nella città alta.
Forse addirittura, si tratta di Giovanni l’evangelista,
in passato identificato con Giovanni l’apostolo.
Che Giovanni evangelista non sia Giovanni l’apostolo,
fratello di Giacomo, spiegherebbe molte cose.
Il fatto che il suo Vangelo sia quasi esclusivamente
ambientato a Gerusalemme, fa pensare che sia originario
della città e non della Galilea come l’apostolo, che non dica
una parola degli eventi in cui sono coinvolti Pietro, Giacomo
e Giovanni come riferito dai Sinottici, la sua straordinaria
conoscenza della scrittura, la presenza, nel prologo, di alcuni
temi in uso alla riflessione rabbinica che ne fanno non un
pescatore, ma, piuttosto, un dottore della legge,
la facilità con cui entra nella casa del sommo sacerdote
Anna e vi fa entrare Pietro, (Giovanni 18,15-16) e,
oprattutto, il fatto che il quarto evangelista non si identifichi
affatto con l’apostolo Giovanni, sono elementi
che rinforzano questa tesi; Giovanni evangelista perciò,
non è Giovanni l’apostolo.
La sua presenza accanto a Gesù durante la cena, più vicino di Pietro,
si giustifica bene se egli è il proprietario della casa che li ospita.
È la casa di Giovanni l’evangelista, sacerdote del tempio?
È possibile!
Mi piace pensarlo e ci sono degli indizi che sostengono questa tesi.
Mi piace moltissimo la versione di Matteo,
in cui i discepoli dicono alla persona designata: il Maestro
dice
insieme ai miei discepoli presso di te> (Matteo 26,18).
Perché nessuno degli evangelisti ricorda il nome del
proprietario della splendida stanza alta, addobbata,
che diventerà anche il rifugio per gli apostoli dopo la
crocifissione e, forse, la stanza della Pentecoste?
È un luogo importante, essenziale, conosciuto
dalla primitiva comunità!
Forse perché è un particolare senza importanza
annotano alcuni.
Azzardo un’ipotesi; se d’avvero è la stanza di un
sacerdote, e questo sacerdote è l’evangelista Giovanni,
forse non era opportuno svelarne l’identità.
O forse perché l’invito ad addobbare la stanza alta è
rivolto a ciascuno di noi, ad ogni discepolo.
Gesù desidera celebrare la pasqua presso ciascuno di noi,
nella nostra vita, nella nostra stanza interiore.
La fede non è un evento che ci sfiora, che ci sta accanto,
che ci vede partecipanti part-time, l’evento delle feste
comandate e della domenica, da tirare fuori quando serve.
È finito il tempo in cui Dio si nascondeva
misteriosamente altrove.
Egli è presente nella quotidianità, incontrabile,
riconoscibile e accessibile.
Meglio, manifesta il suo desiderio di stare con noi,
di stare con me, con te, con tutti noi.
Abbiamo allora, una stanza addobbata in cui
accogliere il Signore, nella nostra vita?
Un luogo, un tempo, un atteggiamento che gli permetta
di celebrare il dono della sua vita?
Può essere un tempo di preghiera quotidiana, un ritiro
annuale in una casa spirituale, un pellegrinaggio in un
luogo santo, non una gita, l’abitudine a meditare la Parola
e chiederci cosa Lui vuole dirci.
Il grande dramma del nostro tempo è
che lamentiamo l’assenza di Dio.
Ma non ci facciamo trovare.
Dio ci rende partecipi, si fa nostro ospite, si dona
totalmente, solo se lo vogliamo, se lo invitiamo.
Perciò, lasciamoci incontrare!
La stanza è pronta, grande, spaziosa.
Non è una cena pasquale, è la cena pasquale.
La cena dell’addio, del dono, delle consegne.
Ignari, gli apostoli non sanno quello che sta per succedere.
Gesù rispetta la sequenza prevista dal rito della
cena pasquale, anche se nessun evangelista parla
di agnello o di erbe amare.
Come è abituale in una cena di festa.
Gesù benedice e ringrazia per il pane, all’inizio del pasto.
Poi alla fine, si benedice e si ringrazia bevendo il vino.
Gesù però cambia la gestualità e le parole della
preghiera di benedizione, a cui tutti rispondono amen.
Lo fa sapendo che sta per dare se stesso in cibo all’umanità.
IL DONO.
Tutto è pronto, ora.
Gli apostoli chiacchierano, gli eventi degli ultimi giorni
li hanno galvanizzati.
Solo Giuda è scostante, di malumore,
sembra pensare ad altro.
Gesù li ascolta, il suo cuore è gonfio, pieno di gioia per
essere lì; ama teneramente i suoi discepoli.
Scrive Giovanni: “Prima della festa di pasqua, sapendo
Gesù che era venuta la sua ora per passare da questo
mondo al Padre; avendo amato i suoi che erano nel
mondo, li amò fino alla fine”, (Giovanni 13,1).
Gesù è disposto ad amare fino alla fine.
Nel suo intimo, però, l’inquietudine vigila.
Sa che è l’ultima cena. Sa che tutto sta per finire.
Vuole ancora compiere un gesto, l’ultimo.
Mettiamoci nei panni di Gesù.
Non storcete il naso, spesso ci mettiamo nei panni di Dio, o no.
Gesù è vissuto per trent’anni nell’anonimato,
preparandosi alla sua missione, assumendo la
consapevolezza del suo particolare rapporto
con Dio, scoprendo in sé Dio in maniera unica.
Verbo che lo abita illumina anche la sua intelligenza;
Egli sa di avere un compito speciale, una missione particolare.
Ha posto la sua vita al servizio del Regno di Dio,
è stato discepolo del Battista, poi gli è passato davanti e,
nel deserto, ha scelto come proclamare il vero volto
del Padre; senza durezze, senza trionfalismo, senza
compromessi, ma affidandosi unicamente alla Parola.
(Il suo parlare è intenso, zelante e colto,
totalmente diverso da tutti e conquista le folle).
È tutto all’opposto di noi, che la Parola sembra proprio
ci interessi poco, basta vedere quante persone vanno
a Messa quando addirittura è finita l’omelia.
Perché, la scusa è sempre pronta, il prete non sa parlare bene,
avete ragione mi associo, allora è meglio entrare nel momento
cruciale della Messa. No; tranquilli, non condivido.
E se invece fossimo noi, che non ci impegniamo ad ascoltare,
magari pensando alle nostre varie cose?
Mi sa che è proprio così, è come quando troviamo il poco
tempo per pregare, ma la nostra mente è piena di mille
cose e ci distoglie da quello che stiamo facendo.
Tranquilli, vi capisco, capita anche a me certe volte.
Siamo in buona compagnia, allora.
Chiudiamo la parentesi, ritorniamo al nostro Gesù.
Ha iniziato la sua predicazione in Galilea, attorniato da
alcuni amici e discepoli con cui ha condiviso la tavola e i sogni.
Il suo modo di parlare del Regno, la sua tenerezza, la sua
compassione, hanno fatto breccia nel cuore delle persone;
mai nessuno ha parlato di Dio come parla il Rabbino di Nazareth.
Appunto, Gesù.
La sua fama si diffonde a macchia d’olio;
ora parla davanti alle folle.
Parla di Dio, della legge, dei precetti.
Intenso come un esseno, zelante come un fariseo,
colto come uno scriba, eppure totalmente diverso da tutti.
Non è presuntuoso, non infastidito dai poveri e dai piccoli, non arrogante.
Qualcuno dice che compie miracoli, alcuni lo testimoniano,
ma non vuole pubblicità intorno a questi eventi.
Sale a Gerusalemme, dove si scontra con la durezza dei sadducei;
anche i farisei lo guardano con sospetto perché li mette in difficoltà
rispetto alle troppe, inutili piccolezze dei comandamenti orali.
Ci sono d’esempio le nostre comunità parrocchiali,
non me ne vogliano, ma è così, scusate.
La tensione cresce, Gesù è guardato con sospetto.
Parla liberamente di Dio, lo considera suo Padre,
corregge la legge, svela un volto di Dio inatteso e magnifico.
Dio è un Padre che ama i suoi figli, che li tratta da adulti.
Dio è un pastore che cerca le pecorelle smarrite e le carica sulle spalle.
Dio è un vignaiolo che affida all’umanità la sua vigna preziosa.
Dio è un Padre misericordioso, che aspetta i suoi figli peccatori
per perdonarli; ci ricordiamo?, va e non peccare più,
la tua fede ti ha salvato.
Ma le parole non bastano.
I suoi collaboratori più stretti sembrano non avere
capito molto della situazione, che sta precipitando.
Con quale stato d’animo Gesù celebra quella cena,
quel 6 Aprile dell’anno 30?
Forse con un senso di fallimento.
Come capita a tutti noi, prima o poi.
È venuto per annunciare il vero volto di Dio,
perché Lui e il Padre sono una cosa sola.
Ma l’uomo non ha capito.
La folla che lo acclama, chiede sempre dei miracoli,
come se fosse un fenomeno da baraccone,
(stiamo vedendo ai giorni nostri, Brosio sta
letteralmente spopolando sulle televisioni,
perché secondo lui solo chi va a Medjugorje
riesce ad avere il miracolo, serve solo avere tanta fede,
e chi anche andando a Medjugorje non gli riesce
di ottenere il miracolo; allora è senza fede; no,
non è così, mi dispiace per Brosio, tante volte in quello
che dicono le persone c’è del fanatismo; stiano tranquilli
quelli che non riescono ad ottenerlo.
Questo capita ai giorni nostri, tutti a correre nei vari Santuari
in cerca del miracolo, tanti vanno a Medjugorje per toccare
i veggenti nella speranza che succeda qualche cosa di speciale.
Ma che senta dire, vado in quel posto, per riempirmi di Dio,
della sua Parola, è una cosa rarissima, fine della parentesi.
I farisei, che condividevano molte delle sue idee,
lo guardano con sospetto, hanno paura perche è il solo
che osa contraddirli.
I sadducei e la classe sacerdotale lo considerano
un pericolo per la stabilità del paese, o delle loro tasche;
per forza, parla sempre di condividere.
I suoi amici, i più fedeli, non hanno colto la gravità della
situazione e si gongolano nel loro nuovo ruolo spirituale.
Tutti, eccetto Giuda, che pensa di accelerare i tempi,
di farlo incontrare col Sinedrio, e combina un pasticcio assurdo.
Povero Giuda, ha dovuto sobbarcarsi anche le nostre colpe, il tradimento.
Gesù ha fallito la sua missione; l’uomo non cambierà mai.
Che fare allora?
Gesù chiede consiglio a chi lo ascolta.
Cerca una luce, una strada da percorrere,
ma a nessuno interessa quello che deve fare.
L’importante che non rompa troppo.
Cosa deve fare ancora?
Leggete se volete il brano di Matteo 21,33-41
Ecco la risposta di quelle persone che solo dopo
qualche giorno urleranno crocifiggilo.
Idiozia dell’animo umano.
I vignaioli omicidi chiedono a gran voce di giustiziare
i vignaioli omicidi; chiedono di essere giustiziati.
Ecco l’imbecillità dell’essere umano.
Sì, forse dovrebbe fare così; arrabbiarsi,
invocare il fuoco del cielo o una legione
di angeli con le spade fiammeggianti.
Non alzerà la mano contro i coloni, ma si farà
immolare su un patibolo per loro e per tutti.
No, non lo farà.
Colui che non spezza una canna incrinata,
tenterà un’ultima strada.
Donarsi, consegnarsi, osare. A partire da ora.
FARSI DONO.
È una cena pasquale, quella che stanno vivendo.
Cena intensa, come quella rituale della
fuga del popolo schiavo dall’Egitto.
Gesù prende il pane, all’inizio della cena, lo spezza e lo dona,
come previsto in occasione delle festività.
Alla fine prende il calice del vino e, diversamente dal rituale,
lo porge ai suoi discepoli, (Marco invece sintetizza questi due
gesti ponendoli insieme, durante la cena).
E parla. Leggete se volete il Brano di Marco 14,22-25.
Aggiunge alle consuete parole di benedizione, un’affermazione
perentoria; questo è il mio corpo, questo è il mio sangue.
I discepoli sono sbalorditi, sconcertati; di cosa parla, il Rabbì?
Gesù non usa parole a caso, sa bene ciò che fa,
crede profondamente in ciò che dice.
La sua passione inizia qui, la sua crocifissione,
il dono della sua vita, sono anticipati, qui ora.
Matteo che scrive dopo Marco e che è presente alla cena,
aggiunge un particolare.
Quindi prese il calice, rese grazie e lo passò a loro dicendo:
“Bevetene tutti; questo infatti è il mio sangue dell’Alleanza,
che sarà versato per molti in remissione dei peccati”,
(Matteo 26,27-28).
Il sangue che Gesù sta per versare è un sangue
di purificazione, per il perdono dei peccati.
Gesù svela la sua profonda identità;
Egli è l’Agnello pasquale che manca alla tavola della cena.
Sconcertante; Gesù sta per essere torturato fino alla morte,
e si preoccupa della salvezza dei suoi discepoli,
del perdono dei loro e dei nostri peccati.
L’hanno capito gli apostoli; l’abbiamo capito noi?
Ho molti dubbi!
Luca, che scrive contemporaneamente a Matteo,
aggiunge una frase fondamentale, certamente
proveniente da Paolo, detta da Gesù: “Questo è il mio
corpo che è dato per voi.
Fate questo in memoria di me”, (Luca 22,19).
Gesù da un ordine preciso ai suoi discepoli; rifate questo gesto.
Non dice; ogni tanto ritrovatevi e brindate alla mia memoria!
Celebrare il “memoriale”, perciò significa ripetere
un gesto per rivivere quella esperienza.
Gesù dice; se volete chi Io sia presente, rifate questo gesto.
Ed è nata la S. Messa.
E così accade, ancora oggi.
In obbedienza al comando del Signore.
E così è accaduto, fin dall’inizio.
La più antica testimonianza della fedeltà a questo ordine,
ce la fornisce San Paolo, quando, rivolgendosi alla
comunità di Corinto, (siamo intorno al 55 d.C. pochi anni
dopo questa prima cena), scrive; io ho ricevuto dal Signore
quello che vi ho trasmesso; che il Signore Gesù, nella notte
in cui fu tradito, prese del pane e, reso grazie, lo spezzò e disse:
“Questo è il corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”.
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice
dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue;
fate questo, tutte le volte che ne bevete, in memoria di me”.
Quindi tutte le volte che voi mangiate questo pane
e bevete a questo calice, annunziate la morte del Signore,
finchè Egli venga, (1° Corinzi 11,23-26).
Paolo si preoccupa che nessuno lasci cadere
lo straordinario dono dell’Eucaristia.
Che dire amici?
Possiamo discutere per ore sulla qualità
scadente delle nostre messe.
Sulla fragilità dei nostri preti.
Sulla mediocrità delle loro liturgie.
Non dimentichiamo mai, però, che ciò che stanno facendo
è un gesto di obbedienza al Signore, che continua a
consegnarsi, a rendersi presente,
che ci crediamo o no, che ce ne accorgiamo o no.
E questo basta e avanza.
Ecco perché a Collevalenza dietro al Crocifisso
dell’Amore Misericordioso, Madre Speranza ha fatto
mettere l’Ostia: “Perché possiamo renderci convinti
che in ogni Santa Messa, Lui scende misticamente a
rinnovare il suo gesto d’Amore”.
Questo manca alle nostre celebrazioni; la consapevolezza
che Egli è presente, che quel gesto è un dono d’amore
assoluto e sanguinante, definitivo e salvifico.
Luca scrive nel suo Vangelo; prima della cena Gesù disse:
“Ho desiderato grandemente mangiare questa pasqua con voi,
prima di partire, perché vi dico che non la mangerò più finche
non sia compiuta nel Regno di Dio” (Luca 22,15-16).
Quello che è chiaro, è che Gesù sta mettendo tutto se stesso
in questo gesto, tutta la forza e l’amore di cui è capace.
Niente a che vedere con il precetto,
l’abitudine, l’identità culturale.
Ma molto a che vedere con l’Amore.
Se credi che Gesù è presente, come fai a non esserci?
Come fa a non pesarti il fatto di non essere alla cena?
Nella tormentata storia della nostra Chiesa,
la fedeltà a quest’ordine, il gesto della cena,
è costato la vita a molte persone, ieri e oggi.
Tanti martiri hanno dato la loro vita per celebrare l’Eucaristia,

noi invece, la celebriamo con insufficienza.

Nessun commento:

Posta un commento