Proseguiamo ad
approfondire
questa
Settimana Santa.
Leggendo i racconti della
passione, si parla
di un’altra casa, oltre a
Betania, in cui Gesù
si è sentito accolto in
quelle ultime ore.
Una casa particolare,
rimasta segreta, ampia e
spaziosa, addobbata con
tappeti, fa notare Marco,
preparata apposta per Gesù.
Gesù che si
appresta a morire.
La città è in fibrillazione
per la pasqua ormai imminente,
la più solenne delle feste
ebraiche.
Migliaia di pellegrini sono
saliti a Gerusalemme.
Gli apostoli ignari, ancora
gongolano per gli eventi
della risurrezione di
Lazzaro.
L’ingresso trionfale a
Gerusalemme li ha caricati a mille.
L’idea che la situazione
possa precipitare, ora, neppure li sfiora.
Un po’ come succede a noi,
quando, tutto va bene siamo
sereni, pieni di vita e
pensiamo solo a divertirci, per poi
appena arriva qualche
problema, cadere nella disperazione.
Gesù dice che, dobbiamo
essere sempre pronti.
Solo Gesù sa. E Giuda.
Le cose non stanno affatto
andando bene; i sadducei
stanno cercando un’occasione
per ucciderlo.
I farisei sono urtati dalle
sue continue provocazioni.
La folla che lo ha acclamato
e seguito in Galilea,
qui in Giudea non si lascia
coinvolgere più di tanto.
I suoi apostoli, non hanno
capito nulla, poveretti.
Gesù sa che la sua missione
è fallita.
L’uomo non accetta il nuovo
volto di Dio.
Odio e incomprensione stanno
crescendo.
I sadducei vogliono
risolvere in fretta l’affare Gesù,
soprattutto dopo l’eclatante
e inopportuna
risurrezione di Lazzaro.
Presto prima di
pasqua.
Gesù sa che quelle
potrebbero essere le ultime ore.
Prende una decisione; lascia
Betania e decide di cercare
un luogo a Gerusalemme dove
celebrare una cena.
Una cena d’addio,
pensa.
I suoi, invece, non sanno
proprio di cosa si tratti.
La gente, dentro le mura, è
tutta presa dai preparativi.
Si tratta in quell’ultimo
giorno prima di pasqua,
di togliere tutto il lievito
presente entro le mura,
come chiesto a Mosè, (Esodo 13,7).
Tutto ciò che può
fermentare, deve essere trovato ed eliminato.
Il lievito è il simbolo del
male, il simbolo dell’orgoglio,
dell’arroganza, che va
bruciato per poter celebrare il passaggio;
il lievito è l’immagine
dell’inclinazione cattiva.
Per i sette giorni seguenti,
non si potrà mangiare pane lievitato,
nelle case degli ebrei, come
prescrive la Legge, (Deuteronomio 16,3-4).
Anche Gesù, considerato
lievito malvagio, dev’essere tolto di
mezzo e allontanato dalla
città per non contaminare la pasqua.
Leggete se volete il
Brano di Marco 14,12-16
L’agnello pasquale va consumato
dentro le mura della
città, i pellegrini sono
autorizzati a mangiarlo fuori,
visto il gran numero di
persone giunte a Gerusalemme.
Si tratta di trovare una
sala adatta, una stanza pronta.
Gesù manda due discepoli e
affida loro il compito di
contattare una persona, un
tale, conosciuto dai discepoli.
Chi è questo tale?
Alcuni scrittori giungono a
immaginare che la grande
stanza addobbata sia di
proprietà di un discepolo di Gesù,
appartenente alla classe
sacerdotale, che abita nella città alta.
Forse addirittura, si tratta
di Giovanni l’evangelista,
in passato identificato con
Giovanni l’apostolo.
Che Giovanni evangelista non
sia Giovanni l’apostolo,
fratello di Giacomo,
spiegherebbe molte cose.
Il fatto che il suo Vangelo
sia quasi esclusivamente
ambientato a Gerusalemme, fa
pensare che sia originario
della città e non della
Galilea come l’apostolo, che non dica
una parola degli eventi in
cui sono coinvolti Pietro, Giacomo
e Giovanni come riferito dai
Sinottici, la sua straordinaria
conoscenza della scrittura,
la presenza, nel prologo, di alcuni
temi in uso alla riflessione
rabbinica che ne fanno non un
pescatore, ma, piuttosto, un
dottore della legge,
la facilità con cui entra
nella casa del sommo sacerdote
Anna e vi fa entrare Pietro,
(Giovanni 18,15-16) e,
oprattutto, il fatto che il
quarto evangelista non si identifichi
affatto con l’apostolo
Giovanni, sono elementi
che rinforzano questa tesi;
Giovanni evangelista perciò,
non è Giovanni l’apostolo.
La sua presenza accanto a
Gesù durante la cena, più vicino di Pietro,
si giustifica bene se egli è
il proprietario della casa che li ospita.
È la casa di Giovanni
l’evangelista, sacerdote del tempio?
È possibile!
Mi piace pensarlo e ci sono
degli indizi che sostengono questa tesi.
Mi piace moltissimo la
versione di Matteo,
in cui i discepoli dicono
alla persona designata: il Maestro
dice
insieme ai miei
discepoli presso di te> (Matteo 26,18).
Perché nessuno degli
evangelisti ricorda il nome del
proprietario della splendida
stanza alta, addobbata,
che diventerà anche il
rifugio per gli apostoli dopo la
crocifissione e, forse, la
stanza della Pentecoste?
È un luogo importante,
essenziale, conosciuto
dalla primitiva comunità!
Forse perché è un
particolare senza importanza
annotano alcuni.
Azzardo un’ipotesi; se
d’avvero è la stanza di un
sacerdote, e questo
sacerdote è l’evangelista Giovanni,
forse non era opportuno
svelarne l’identità.
O forse perché l’invito ad
addobbare la stanza alta è
rivolto a ciascuno di noi,
ad ogni discepolo.
Gesù desidera celebrare la
pasqua presso ciascuno di noi,
nella nostra vita, nella
nostra stanza interiore.
La fede non è un evento che
ci sfiora, che ci sta accanto,
che ci vede partecipanti
part-time, l’evento delle feste
comandate e della domenica,
da tirare fuori quando serve.
È finito il tempo in cui Dio
si nascondeva
misteriosamente altrove.
Egli è presente nella
quotidianità, incontrabile,
riconoscibile e accessibile.
Meglio, manifesta il suo desiderio di stare con noi,
di stare con me, con te, con
tutti noi.
Abbiamo allora, una stanza
addobbata in cui
accogliere il Signore, nella
nostra vita?
Un luogo, un tempo, un
atteggiamento che gli permetta
di celebrare il dono della
sua vita?
Può essere un tempo di
preghiera quotidiana, un ritiro
annuale in una casa
spirituale, un pellegrinaggio in un
luogo santo, non una gita,
l’abitudine a meditare la Parola
e chiederci cosa Lui vuole
dirci.
Il grande dramma del nostro
tempo è
che lamentiamo l’assenza di
Dio.
Ma non ci facciamo
trovare.
Dio ci rende partecipi, si
fa nostro ospite, si dona
totalmente, solo se lo
vogliamo, se lo invitiamo.
Perciò, lasciamoci incontrare!
La stanza è pronta, grande,
spaziosa.
Non è una cena pasquale, è
la cena pasquale.
La cena dell’addio, del
dono, delle consegne.
Ignari, gli apostoli non
sanno quello che sta per succedere.
Gesù rispetta la sequenza
prevista dal rito della
cena pasquale, anche se
nessun evangelista parla
di agnello o di erbe amare.
Come è abituale in una cena
di festa.
Gesù benedice e ringrazia
per il pane, all’inizio del pasto.
Poi alla fine, si benedice e
si ringrazia bevendo il vino.
Gesù però cambia la
gestualità e le parole della
preghiera di benedizione, a
cui tutti rispondono amen.
Lo fa sapendo che sta per
dare se stesso in cibo all’umanità.
IL DONO.
Tutto è pronto, ora.
Gli apostoli chiacchierano,
gli eventi degli ultimi giorni
li hanno galvanizzati.
Solo Giuda è scostante, di
malumore,
sembra pensare ad altro.
Gesù li ascolta, il suo
cuore è gonfio, pieno di gioia per
essere lì; ama teneramente i
suoi discepoli.
Scrive Giovanni: “Prima della festa di pasqua, sapendo
Gesù che era
venuta la sua ora per passare da questo
mondo al Padre;
avendo amato i suoi che erano nel
mondo, li amò fino
alla fine”, (Giovanni
13,1).
Gesù è disposto ad amare
fino alla fine.
Nel suo intimo, però,
l’inquietudine vigila.
Sa che è l’ultima
cena. Sa che tutto sta per
finire.
Vuole ancora
compiere un gesto, l’ultimo.
Mettiamoci nei
panni di Gesù.
Non storcete il naso, spesso
ci mettiamo nei panni di Dio, o no.
Gesù è vissuto per
trent’anni nell’anonimato,
preparandosi alla sua
missione, assumendo la
consapevolezza del suo
particolare rapporto
con Dio, scoprendo in sé Dio
in maniera unica.
Verbo che lo abita illumina
anche la sua intelligenza;
Egli sa di avere un compito
speciale, una missione particolare.
Ha posto la sua vita al
servizio del Regno di Dio,
è stato discepolo del
Battista, poi gli è passato davanti e,
nel deserto, ha scelto come
proclamare il vero volto
del Padre; senza durezze,
senza trionfalismo, senza
compromessi, ma affidandosi
unicamente alla Parola.
(Il suo parlare è
intenso, zelante e colto,
totalmente diverso
da tutti e conquista le folle).
È tutto all’opposto di noi,
che la Parola sembra proprio
ci interessi poco, basta
vedere quante persone vanno
a Messa quando addirittura è
finita l’omelia.
Perché, la scusa è sempre
pronta, il prete non sa parlare bene,
avete ragione mi
associo, allora è meglio entrare nel momento
cruciale della Messa. No; tranquilli, non condivido.
E se invece fossimo noi, che
non ci impegniamo ad ascoltare,
magari pensando alle nostre
varie cose?
Mi sa che è proprio così, è
come quando troviamo il poco
tempo per pregare, ma la
nostra mente è piena di mille
cose e ci distoglie da
quello che stiamo facendo.
Tranquilli, vi capisco,
capita anche a me certe volte.
Siamo in buona
compagnia, allora.
Chiudiamo la parentesi,
ritorniamo al nostro Gesù.
Ha iniziato la sua
predicazione in Galilea, attorniato da
alcuni amici e discepoli con
cui ha condiviso la tavola e i sogni.
Il suo modo di parlare del
Regno, la sua tenerezza, la sua
compassione, hanno fatto
breccia nel cuore delle persone;
mai nessuno ha parlato di
Dio come parla il Rabbino di Nazareth.
Appunto, Gesù.
La sua fama si diffonde a
macchia d’olio;
ora parla davanti alle
folle.
Parla di Dio, della legge,
dei precetti.
Intenso come un esseno,
zelante come un fariseo,
colto come uno scriba, eppure
totalmente diverso da tutti.
Non è presuntuoso, non
infastidito dai poveri e dai piccoli, non arrogante.
Qualcuno dice che compie
miracoli, alcuni lo testimoniano,
ma non vuole pubblicità
intorno a questi eventi.
Sale a Gerusalemme, dove si
scontra con la durezza dei sadducei;
anche i farisei lo guardano
con sospetto perché li mette in difficoltà
rispetto alle troppe,
inutili piccolezze dei comandamenti orali.
Ci sono d’esempio
le nostre comunità parrocchiali,
non me ne
vogliano, ma è così, scusate.
La tensione cresce, Gesù è
guardato con sospetto.
Parla liberamente di Dio, lo
considera suo Padre,
corregge la legge, svela un
volto di Dio inatteso e magnifico.
Dio è un Padre che ama i
suoi figli, che li tratta da adulti.
Dio è un pastore che cerca
le pecorelle smarrite e le carica sulle spalle.
Dio è un vignaiolo che
affida all’umanità la sua vigna preziosa.
Dio è un Padre
misericordioso, che aspetta i suoi figli
peccatori
per perdonarli; ci ricordiamo?, va e non peccare più,
la tua fede ti ha
salvato.
Ma le parole non bastano.
I suoi collaboratori più
stretti sembrano non avere
capito molto della
situazione, che sta precipitando.
Con quale stato d’animo Gesù
celebra quella cena,
quel 6 Aprile dell’anno 30?
Forse con un senso di
fallimento.
Come capita a tutti noi,
prima o poi.
È venuto per annunciare il
vero volto di Dio,
perché Lui e il Padre sono
una cosa sola.
Ma l’uomo non ha
capito.
La folla che lo acclama,
chiede sempre dei miracoli,
come se fosse un fenomeno da
baraccone,
(stiamo vedendo ai giorni
nostri, Brosio sta
letteralmente spopolando
sulle televisioni,
perché secondo lui solo chi
va a Medjugorje
riesce ad avere il miracolo,
serve solo avere tanta fede,
e chi anche andando a
Medjugorje non gli riesce
di ottenere il miracolo;
allora è senza fede; no,
non è così, mi dispiace per
Brosio, tante volte in quello
che dicono le persone c’è
del fanatismo; stiano tranquilli
quelli che non riescono ad
ottenerlo.
Questo capita ai giorni
nostri, tutti a correre nei vari Santuari
in cerca del miracolo, tanti
vanno a Medjugorje per toccare
i veggenti nella speranza
che succeda qualche cosa di speciale.
Ma che senta dire, vado in
quel posto, per riempirmi di Dio,
della sua Parola, è una cosa
rarissima, fine della parentesi.
I farisei, che condividevano
molte delle sue idee,
lo guardano con sospetto,
hanno paura perche è il solo
che osa contraddirli.
I sadducei e la classe
sacerdotale lo considerano
un pericolo per la stabilità
del paese, o delle loro tasche;
per forza, parla
sempre di condividere.
I suoi amici, i più fedeli,
non hanno colto la gravità della
situazione e si gongolano
nel loro nuovo ruolo spirituale.
Tutti, eccetto Giuda, che
pensa di accelerare i tempi,
di farlo incontrare col
Sinedrio, e combina un pasticcio assurdo.
Povero Giuda, ha dovuto
sobbarcarsi anche le nostre colpe, il tradimento.
Gesù ha fallito la sua
missione; l’uomo non cambierà mai.
Che fare allora?
Gesù chiede consiglio a chi
lo ascolta.
Cerca una luce, una strada
da percorrere,
ma a nessuno interessa
quello che deve fare.
L’importante che
non rompa troppo.
Cosa deve fare ancora?
Leggete se volete
il brano di Matteo 21,33-41
Ecco la risposta di quelle
persone che solo dopo
qualche giorno urleranno
crocifiggilo.
Idiozia dell’animo umano.
I vignaioli omicidi chiedono
a gran voce di giustiziare
i vignaioli omicidi; chiedono
di essere giustiziati.
Ecco
l’imbecillità dell’essere umano.
Sì, forse dovrebbe fare
così; arrabbiarsi,
invocare il fuoco del cielo
o una legione
di angeli con le spade
fiammeggianti.
Non alzerà la mano contro i
coloni, ma si farà
immolare su un patibolo per
loro e per tutti.
No, non lo farà.
Colui che non spezza una
canna incrinata,
tenterà un’ultima strada.
Donarsi, consegnarsi, osare.
A partire da ora.
FARSI DONO.
È una cena pasquale, quella
che stanno vivendo.
Cena intensa, come quella
rituale della
fuga del popolo schiavo
dall’Egitto.
Gesù prende il pane,
all’inizio della cena, lo spezza e lo dona,
come previsto in occasione
delle festività.
Alla fine prende il calice
del vino e, diversamente dal rituale,
lo porge ai suoi discepoli, (Marco invece sintetizza questi due
gesti ponendoli
insieme, durante la cena).
E parla. Leggete se volete il Brano di Marco 14,22-25.
Aggiunge alle consuete
parole di benedizione, un’affermazione
perentoria; questo è il mio
corpo, questo è il mio sangue.
I discepoli sono sbalorditi,
sconcertati; di cosa parla, il Rabbì?
Gesù non usa parole a caso,
sa bene ciò che fa,
crede profondamente in ciò
che dice.
La sua passione inizia qui,
la sua crocifissione,
il dono della sua vita, sono
anticipati, qui ora.
Matteo che scrive dopo Marco
e che è presente alla cena,
aggiunge un particolare.
Quindi prese il calice, rese
grazie e lo passò a loro dicendo:
“Bevetene tutti;
questo infatti è il mio sangue dell’Alleanza,
che sarà versato
per molti in remissione dei peccati”,
(Matteo
26,27-28).
Il sangue che Gesù sta per
versare è un sangue
di purificazione, per il
perdono dei peccati.
Gesù svela la sua profonda
identità;
Egli è l’Agnello pasquale
che manca alla tavola della cena.
Sconcertante; Gesù sta per
essere torturato fino alla morte,
e si preoccupa della
salvezza dei suoi discepoli,
del perdono dei loro e dei
nostri peccati.
L’hanno capito gli apostoli;
l’abbiamo capito noi?
Ho molti dubbi!
Luca, che scrive
contemporaneamente a Matteo,
aggiunge una frase
fondamentale, certamente
proveniente da Paolo, detta
da Gesù: “Questo è il mio
corpo che è dato
per voi.
Fate questo in
memoria di me”, (Luca
22,19).
Gesù da un ordine preciso ai
suoi discepoli; rifate questo gesto.
Non dice; ogni tanto
ritrovatevi e brindate alla mia memoria!
Celebrare il “memoriale”, perciò significa ripetere
un gesto per rivivere quella
esperienza.
Gesù dice; se volete chi Io
sia presente, rifate questo gesto.
Ed è nata la S.
Messa.
E così accade, ancora oggi.
In obbedienza al comando del
Signore.
E così è accaduto, fin
dall’inizio.
La più antica testimonianza
della fedeltà a questo ordine,
ce la fornisce San Paolo,
quando, rivolgendosi alla
comunità di Corinto, (siamo intorno al 55 d.C. pochi anni
dopo questa prima
cena), scrive; io ho ricevuto dal Signore
quello che vi ho trasmesso;
che il Signore Gesù, nella notte
in cui fu tradito, prese del
pane e, reso grazie, lo spezzò e disse:
“Questo è il
corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”.
Allo stesso modo, dopo aver
cenato, prese anche il calice
dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue;
fate questo, tutte
le volte che ne bevete, in memoria di me”.
Quindi tutte le volte che
voi mangiate questo pane
e bevete a questo calice,
annunziate la morte del Signore,
finchè Egli venga, (1° Corinzi 11,23-26).
Paolo si preoccupa che
nessuno lasci cadere
lo straordinario dono
dell’Eucaristia.
Che dire amici?
Possiamo discutere per ore
sulla qualità
scadente delle nostre messe.
Sulla fragilità dei nostri
preti.
Sulla mediocrità delle loro
liturgie.
Non dimentichiamo mai, però,
che ciò che stanno facendo
è un gesto di obbedienza al Signore,
che continua a
consegnarsi, a rendersi
presente,
che ci crediamo o no, che ce
ne accorgiamo o no.
E questo basta e
avanza.
Ecco perché a Collevalenza
dietro al Crocifisso
dell’Amore Misericordioso,
Madre Speranza ha fatto
mettere l’Ostia: “Perché possiamo renderci convinti
che in ogni Santa
Messa, Lui scende misticamente a
rinnovare il suo
gesto d’Amore”.
Questo manca alle nostre
celebrazioni; la consapevolezza
che Egli è presente, che
quel gesto è un dono d’amore
assoluto e sanguinante,
definitivo e salvifico.
Luca scrive nel suo Vangelo;
prima della cena Gesù disse:
“Ho desiderato
grandemente mangiare questa pasqua con voi,
prima di partire,
perché vi dico che non la mangerò più finche
non sia compiuta
nel Regno di Dio” (Luca 22,15-16).
Quello che è chiaro, è che Gesù
sta mettendo tutto se stesso
in questo gesto, tutta la
forza e l’amore di cui è capace.
Niente a che vedere con il
precetto,
l’abitudine, l’identità
culturale.
Ma molto a che vedere con
l’Amore.
Se credi che Gesù è
presente, come fai a non esserci?
Come fa a non pesarti il
fatto di non essere alla cena?
Nella tormentata storia
della nostra Chiesa,
la fedeltà a quest’ordine,
il gesto della cena,
è costato la vita a molte
persone, ieri e oggi.
Tanti martiri hanno dato la
loro vita per celebrare l’Eucaristia,
noi invece, la celebriamo
con insufficienza.
Nessun commento:
Posta un commento