VIAGGIAMO SULLE ALI DELLA MISERICORDIA

Il nostro intento e' quello di condividere l'amore del Signore e la maternità di Maria che hanno per tutti noi anche attraverso l'organizzazione di pellegrinaggi al santuario dell'Amore Misericordioso e da alcuni anni anche a Medjugorje.



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venerdì 18 aprile 2014

Il momento tragico della storia.

LA CROCIFISSIONE DI GESÙ CRISTO.
Il “processo” è finito, ognuno ha avuto ciò che desiderava;
Pilato, inaspettatamente , una pubblica dichiarazione di
affetto verso Cesare da parte dei sommi sacerdoti;
Caifa, dopo un’estenuante duello sul filo del rasoio,
la condanna per crocifissione del Nazareno;
Erode un’inattesa attenzione da parte del prefetto.
Gesù è una piccola rotella in un complesso mondo,
in cui ognuno ha le sue buone ragioni per farlo fuori.
Dio si usa, quando serve, altrimenti è meglio sbarazzarsene.
Pilato allora decretò che fosse eseguita la loro richiesta.
Rilasciò quello che era stato messo in prigione per
sommossa e omicidio, e che quelli richiedevano,
ma consegnò Gesù alla loro volontà (Luca 23,24-25).
Gli uomini non fanno la volontà di Dio.
Gesù, allora, è consegnato alla volontà degli uomini.
Se non avessimo duemila anni di predicazione e
di Via Crucis alle spalle, rabbrividiremmo,
leggendo questa annotazione di Luca!
La storia degli uomini è anche segnata dal tentativo di
convincere le divinità a piegarsi ai nostri desideri,
alle nostre necessità.
La passione ci svela un Dio che accondiscende alla  volontà
degli uomini, che, però, è una volontà di morte.
Gesù viene condotto al patibolo perché il volto di Dio che
annuncia e rivela è intollerabile, disturba, scandalizza.
Troppo compassionevole, troppo generoso,
troppo amorevole, il suo Dio.
La religione, fino ad allora usata come strumento per
mantenere l’ordine costituito, esce dagli schemi rigidi in
cui gli uomini religiosi l’hanno costretta, per diventare
un’esperienza personale, interiore e comunitaria.
Con l’amore di un Dio benevolo e sorridente. Un delirio.
Preferiamo tenerci il volto corrucciato di un Dio antipatico
ma potente, indifferente ma schierato con le nostre
ragioni, all’occorrenza.
Gesù va eliminato, non c’è dubbio.
Un profeta abitato dallo Spirito, che ha compiuto solo
opere di bene, che ha smascherato l’ipocrisia nascosta dietro
alla devozione senza fede, che ha riletto con passione e verità
la Parola data da Dio agli uomini, riportandola alla sua origine,
è certamente più pericoloso di Barabba, omicida e sobillatore.
I giudei, presero dunque in consegna Gesù.
Egli, portando la croce da sé, uscì verso il luogo detto
del Cranio, in ebraico Golgota (Giovanni 19,16-17).
 Pilato consegna Gesù a Caifa; si forma un piccolo drappello,
composto da soldati romani e, forse, da soldati del tempio.
Gesù, duramente provato dalla flagellazione che, ricordiamo,
poteva portare alla morte, è caricato del patibolo, una trave
che gli è posta sopra le spalle sanguinanti e legata ai polsi.
A questa trave, una volta arrivati al patibolo,
il condannato è inchiodato con due chiodi,
probabilmente passati nel polso, conficcati nel legno e ripiegati,
per poi essere innalzato, sollevato da quattro soldati,
e appoggiato sopra un palo verticale precedentemente fissato,
alto non più di due metri.
Il luogo dove Gesù è condotto è il Golgota, una cava di
pietra in disuso addossata alla porta ovest della città.
Era abituale trovare delle cave di pietra intorno a Gerusalemme;
quella del Golgota è abbandonata; probabilmente la pietra non
è di buona qualità, come rivelano gli scavi sottostanti
il Santo Sepolcro, e qualcuno l’ha riadattata per scavare
delle preziose tombe.
Il Golgota perciò confina con una serie di ricche tombe
scavate nella roccia e circondate da un giardino.
Il tragitto che Gesù compie non è lungo; dal palazzo di Erode
al Golgota ci sono poche centinaia di metri.
Lo segue una folla di persone; chi lo ha condotto per essere
giudicato e vuole essere sicuro della sua morte, alcuni discepoli,
fra cui l’evangelista Giovanni, alcuni curiosi.
La crocifissione avviene fuori della città; dentro le mura, infatti,
sarebbe impossibile, renderebbe impuro il tempio.
Il sommo sacerdote Caifa deve correre al tempio prima del tramonto;
le minuziose norme di purificazione che lo riguardano non
devono essere infrante per nulla al mondo; certamente non esce
dalla città e, se assiste all’esecuzione di Gesù, lo fa dall’alto delle mura.
L’idea che Caifa, da lì a poche ora, indosserà i solenni paramenti
per uccidere l’agnello pasquale, mi mette i brividi.
È come se un prete pedofilo, rovinasse un ragazzo
e poi andasse a prepararsi per celebrare l’Eucaristia.
Assiste alla morte di Dio, e pensa di onorarlo offrendogli
un agnellino, dopo avergli massacrato il Figlio.
PORTARE LA CROCE.
Spesso nella sua predicazione, Gesù ha parlato di portare la croce,
un modo di dire, forse, derivato dall’esperienza degli abitanti
di Gerusalemme che assistevano a numerose esecuzioni,
con i condannati che attraversavano la città portando il patibolo.
Gesù, usando anche l’immagine del giogo del bue, indica la fatica
dell’essere discepoli, l’impegno che comporta convertirsi alla visione
di Dio che Egli inaugura, lo sforzo per adeguarsi alla logica del Regno.
Credere, ciò, comporta una morte a se stessi,
una fatica, ma anche una liberazione.
E, invece, questo modo di dire è stato foriero di mille interpretazioni;
e di mille sensi di colpa.
Voglio ancora ribattere un’idea per me fondamentale, visto che
Gesù è morto per proclamare, e che non smetterò di ripetere,
a costo di sembrare un paranoico.
Dio non manda le croci,
non le ama e ne farebbe volentieri a meno.
La sofferenza, la malattia, i litigi, la depressione,
un fallimento lavorativo, non dipendono da Dio,
ma da noi e dagli altri.
Da noi, quando ci facciamo mille giri di testa
su cosa vorremmo o dovremmo essere, e siamo sempre
scontenti di noi stessi e della nostra vita.
Dagli altri, quando si divertono a farci tribolare
per invidia o per malvagità.
O, ancora, dalla congiuntura internazionale che ha mandato sul
lastrico l’azienda in cui lavoro, dall’inquinamento atmosferico,
che è all’origine del mio cancro, e così via.
Gesù parla del discepolato come fatica da assumere,
non di un Dio sadico che, avendola portata Lui, decide di
caricarci di una croce per vedere quando crolliamo!
Dio non ci manda la croce e, potendolo,
anche Lui ne avrebbe fatto volentieri a meno.
Ma se la croce arriva, o perché altri ci caricano o perché noi
stessi ce la costruiamo, allora bisogna portarla guardando
avanti, senza farsi schiacciare.
Conosco devoti, non voi, gli altri, che quando sentono parlare
della croce di Gesù cominciano, davanti a Dio che muore,
a lamentarsi dei propri malanni o dei dispetti ricevuti.
Portare la croce non significa alzarsi ogni mattina,
piallarla, carteggiarla e verniciarla!
Per quanto dipende da noi, evitiamo di caricarci di croci
che non rendono in alcun modo gloria a Dio e se, invece,
ne siamo caricati, allora portiamola uniti a Cristo.
Come Simone! Il Cireneo!
Mentre lo conducevano fuori per crocifiggerlo,
costrinsero un passante che tornava dai campi,
Simone di Cirene, padre di Alessandro e Rufo,
a portare la croce di Lui (Marco 15,20-22).
Lo condussero, così, al luogo detto Golgota,
che significa luogo del Cranio.
Gesù non ce la fa proprio; la tensione interiore,
la notte insonne, l’interrogatorio, la flagellazione,
gli scherni, il peso del patibolo…..!
Cade sul selciato e fatica a rialzarsi.
Allora un soldato prende un uomo a caso dalla folla,
uno che torna dal lavoro e che si ferma a vedere cosa succede;
(mai fermarsi a curiosare, può succedere anche di prendere
le colpe), slegano la croce e la pongono sulle spalle di
Simone di Cirene, uno sconosciuto di passaggio,
(non sempre sono parenti e amici ad aiutarti).
Non un amico, un discepolo,
un compagno di avventura; uno sconosciuto.
Prendono uno che compie un gesto forzato, senza entusiasmo,
senza generosità, imprecando in cuor suo, timoroso, anche
di essere anch’egli scambiato per un delinquente.
Un temporaneo compagno di malasorte, come un vicino
di letto in ospedale, o alla mensa dei poveri, uno che ha
in comune con te solo la disperazione. Eppure.
Non sappiamo nulla di Simone.
Non sappiamo se quel quarto d’ora passato a portare
la croce di Gesù sia stato qualcosa di più di un brutto
momento da raccontare, il giorno dopo, ai vicini di casa.
Così è la croce; non desiderata, arriva quando meno
te la aspetti, alla fine di una faticosa giornata di lavoro.
No, Dio non ti manda nessuna croce, nel caso di Simone
sono i soldati romani che gliela impongono.
Ma quel suo gesto obbligato, in qualche modo,
l’ha scosso, interrogato, cambiato.
Marco, raccontando il gesto di Simone, non ne parla
come di uno sconosciuto, ma come del padre di
Alessandro e Rufo, due persone a lui note, probabilmente
due discepoli che frequentano la comunità di Gerusalemme.
Il gesto di Simone è stato una benedizione per lui e la sua famiglia.
Quando ci troviamo a portare la croce, pensiamo che stiamo
aiutando Cristo a portarla, e che, così facendo, lo aiutiamo
a salvare il mondo, manifestando la misura dell’amore di Dio.
E quel gesto, forzato, non bello, non elegante,
può fiorire nella nostra vita interiore, e in quella di chi amiamo.
IL COMPIANTO.
Sulla strada che conduce fuori dalla città, Luca ci racconta un
curioso episodio, denso e significativo, quello delle donne piangenti.
(Leggete se volete il brano di Luca 23,27-32).
In passato molti commentatori hanno sottolineato la
misericordia del Signore nei confronti di queste donne,
immaginate come devote discepole affrante dal dolore.
Bello, poetico, finalmente qualcuno che prova compassione
davanti all’indurito dolore del Nazareno.
E invece no.
Mi ha sempre lasciato perplesso questa interpretazione.
Poi, qualche anno fa, leggendo il testo delle meditazioni alla
Via Crucis al Colosseo scritte dall’allora Cardinal Ratzinger,
mi sono rasserenato; la pensiamo allo stesso modo.
No, quelle donne non sono delle affrante discepole,
ma una compagnia della buona morte chiamata, forse,
figlie di Gerusalemme, che accompagnava i condannati
a morte, e che piangeva lacrime su chi, normalmente,
non aveva nessuno che piangeva per lui.
Il loro, è un pio atto di devozione e di compassione. Falso!
Gesù non vuole lacrime finte, vuole la conversione dei cuori,
non ama l’apparenza, vuole la sostanza,
non le opere caritative fatte una volta all’anno,
ma un cuore compassionevole sempre, non ha
bisogno di una claque che faccia partire l’applauso,
ma di discepoli che seguono il Maestro nel dono di sé.
Gesù è gravemente ferito, esausto,
eppure trova la forza di reagire.
Le sue parole sono taglienti; non ho bisogno delle
vostre lacrime, tenetele per i vostri mariti,
che hanno permesso di uccidere un innocente,
conservatele per quando la violenza genererà violenza,
e il vento seminato diverrà tempesta e tutto crollerà.
Gesù profetizza il crollo di Gerusalemme?
Facile profezia; l’equilibrio raggiunto dalla città è continuamente
messo in discussione dalle lotte interne e dalle tensioni internazionali.
Gesù fa un servizio alla verità,
scuote queste pie donne dell’aristocrazia religiosa,
dal loro mondo dorato per riportarle con i piedi per terra.
Piedi che pestano sangue.
Non sempre chi ti dà una carezza ti vuole bene
e chi uno schiaffo ti vuole male, ricordiamocelo.
A volte, anche una frase forte, uno schiaffo morale,
può testimoniare un grande affetto.
Il corteo ha finito il suo percorso, sono arrivati alla cava, al Golgota.
Gesù viene spogliato della tunica, lo cinge un perizoma di
cotone o lino, che non gli viene tolto.
Abitualmente, nell’impero romano, si era crocifissi nudi,
ultimo segno di disprezzo, come le povere vittime della follia
nazista che erano spogliate prima di entrare nelle camere a gas,
per avere un lavoro di meno da compiere…..!
In Giudea pare di no; Roma non aveva interesse a compiere
gesti che la cultura locale avrebbe considerato provocatori.
Gesù è pronto per essere inchiodato e innalzato.
Volevano anche dargli del vino aromatizzato con mirra,
ma Egli non lo prese (Marco 15,23).
Matteo parla di vino mischiato con fiele, Marco di vino
mischiato con mirra, ma la sostanza non cambia; è un blando
anestetico, una misera forma di compassione per stordire
il condannato durante la crocifissione, momento molto doloroso
che comportava, fra le altre cose, la frattura di alcune ossa
del polso e del legamento del pollice.
Gesù rifiuta la bevanda,
probabilmente vuole restare lucido fino in fondo.
Vuole mantenere la consapevolezza e la
coscienza di sé per ciò che sta compiendo.
Non è facile raggiungere la consapevolezza e la coscienza
delle cose che si vivono, nella vita.
La fede, quella vera, ci può aiutare molto in questo percorso.
Più spesso, durante i momenti di dolore siamo completamente
storditi e poco lucidi, e rischiamo di prendere delle decisioni avventate.
Gesù ha piena consapevolezza di ciò che accade.
I suoi carnefici, secondo Lui, no.
È Luca a riferire questo particolare che mette i brividi.
Quando giunsero sul posto, detto luogo del Cranio, là crocifissero
Lui e i due malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra.
Gesù disse: “Padre, perdona loro,
perché non sanno quello che fanno” (Luca 23,33-34).
Siamo al momento più tragico; i condannati sono slegati,
distesi, in terra, due soldati tengono fermo il disgraziato
mentre un terzo, con un grosso martello, gli conficca un
chiodo lungo una ventina di centimetri, poi viene fatto
alzare e tirato su per le gambe e incastrato al braccio verticale.
A questo punto gli si piegano le gambe e un altro chiodo
è conficcato unendo i piedi, tenuti sovrapposti.
La posizione del crocifisso è innaturale e dolorosa;
la maggior parte del peso del corpo è sostenuto dai polsi,
trafitti dai chiodi; la posizione irrigidisce i muscoli pettorali
che, contraendosi, impediscono di respirare correttamente.
Istintivamente il crocifisso fa leva sui piedi per alzarsi
di qualche centimetro e respirare, per poi ricadere,
sopraffatto dal dolore dei piedi trafitti.
Una tortura inaudita.
In quel momento, mentre è inchiodato e innalzato,
Gesù pronuncia la frase più forte dell’intera passione:
“Padre perdonali, non sanno quello che fanno”.
Non solo li perdona; li giustifica, anche.
Non è vero; sanno benissimo quello che fanno,
ma il Signore sovrabbonda di grazia, è capace di capire
le ragioni (malvage) dei suoi assassini.
Gesù perdona chi lo sta uccidendo,
come ha chiesto di fare ai suoi discepoli.
Ama i suoi nemici.
Questa è la misura senza misura dell’amore di Dio.
È difficile perdonare, difficile perdonarsi.
Non si può dimenticare; il perdono non è un’amnesia.
E il perdono non riguarda l’emozione, ma la volontà;
possiamo perdonare ma restare turbati quando
incontriamo chi ci ha fatto del male.
E non si perdona perché migliori, o perché l’altro cambi
con il nostro perdono; si perdona perché figli del Padre
che fa piovere sopra i giusti e i malvagi.
Perdoniamo perché noi abbiamo bisogno di perdonare,
non perché l’altro si meriti il perdono.
Ed è meglio perdonare come si riesce,
senza aspettare un perdono perfetto.
Provo disagio quando alcuni cronisti si avvicinano ai
genitori di una vittima e parlano di perdonare;
come è anche solo immaginabile pensare di perdonare
l’omicida di tuo figlio il giorno dopo il funerale!
Ci vogliono anni per maturare la decisione di andare oltre,
di augurare a chi ti ha ferito non il male, ma la conversione.
Anni, eccetto che per Gesù,
che ha già maturato il perdono.
Dio perdona sempre, senza porre condizioni,
sperando nella conversione di chi perdona.
LA TUNICA!
Dev’essere un particolare importante se tutti ne parlano.
Gesù viene spogliato delle vesti, ovvio.
Perché dirlo, allora?
E perché con così tanta insistenza?
Probabilmente gli evangelisti indugiano sul particolare
della divisione delle vesti perché colpiti dal fatto che un salmo,
il ventidue, ne parla.
O forse, per sottolineare il disprezzo dei soldati
che prendono la veste, intrisa di sangue,
inutilizzabile, per stracciarla in quattro parti.
Giovanni il teologo, ovviamente, non si accontenta
di questa spiegazione e vuole approfondirla.
(Leggete se volete il brano di Giovanni 19,23-24).
Sono due le vesti, quindi; una tunica preziosa, di qualità,
tessuta tutta d’un pezzo, e un mantello,
che viene fatto a pezzi dai soldati.
La tunica resta intatta. Che significa?
I Padri della Chiesa hanno visto in questa tunica l’immagine
della Chiesa che non deve essere divisa per nessuna ragione.
I discepoli corrono il rischio di stracciare l’unità,
prezioso dono di Cristo morente in croce.
A cosa si riferisce Giovanni?
Forse alle tensioni nate fra la comunità di Gerusalemme,
legata a Giacomo, più conservatore, e quella fondata da Saulo?
Non lo sappiamo.
Certo è che il dono prezioso dell’unità,
più e più volte lacerato nel corso della storia, va conservato.
In parrocchia, nei movimenti, nella Diocesi, quando lasciamo
prevalere la divisione, lo scontro, ricordiamoci che
stiamo lacerando la tunica di Cristo.
SALVA TE STESSO!
Ecco, Gesù è appeso, pende dalla Croce.
Gli evangelisti spostano l’attenzione da Lui a chi lo circonda;
la folla, i capi, i soldati.
Il luogo della crocifissione è vicino all’ingresso
della città e la folla numerosa, che affretta il passo per
entrare, visto il repentino cambiamento del tempo,
vede questi disgraziati e commenta.
Luca descrive la scena con una rara efficacia,
invitando lo spettatore, noi, a una sintesi teologica forte.
(Leggete se volete il brano di Luca 23,35-39).
Il popolo sta a guardare; è stato coinvolto, in precedenza,
per spingere Pilato a crocifiggere Gesù.
Gli è stato fatto credere di essere essenziale,
in realtà il popolo è stato manovrato da interessi
politici e religiosi e, ora, è inerme, assiste.
Quanto possiamo essere manipolati!
Per incitare una nazione a scatenare una guerra,
o ad acquistare un prodotto, o a eleggere un candidato
politico; il popolo, la “gente”, come si dice oggi,
è coinvolta solo se serve e, quasi sempre, è usata per
raggiungere finalità personali e private, non il bene comune.
(Vediamo i nostri politici, tutti, di qualsiasi colore essi siano).
Il discepolo, invece, non fa parte di una folla, ma di una Chiesa,
un popolo di radunati-da-Dio, di convocati, chiamati a essere
protagonisti della storia di Dio, a fare gli attori, non le comparse.
Forse pochi lo sanno che, alla domenica quando andiamo ad
assistere alla Santa Messa, siamo noi i protagonisti,
il celebrante all’inizio della celebrazione dell’Eucaristia
ci chiede di poterlo fare, ci chiede il nostro consenso,
siamo noi che celebriamo la santa Messa e non lo sappiamo,
lui la presiede, ma i protagonisti siamo noi.
Quanta grazia!
La folla è stata usata; ora assiste alle conseguenze
della propria barbarie, inerme, spenta.
Tutti i presenti sono d’accordo.
I capi del popolo giudaico, i soldati romani, il ladro;
per mostrare di essere il Cristo, Gesù deve salvare se stesso.
Per dimostrare di essere Dio, Gesù deve fare l’egoista.
È giusto; Dio non è forse il sommo egoista bastante a se stesso?
Il totalmente realizzato, il compiuto, l’inarrivabile?
Allora, per dimostrare di essere il Figlio di Dio,
Gesù deve salvare se stesso!
No, invece, Gesù non salverà sé. Salva me.
La sconcertante novità del cristianesimo è la scoperta di un
Dio che vive in relazione all’altro, che non è il motore immobile,
ma che è Trinità, comunione, relazione, festa e famiglia.
Gesù non salva se stesso; salva l’umanità,
donando se stesso.
E ci apre una prospettiva sconosciuta e inattesa
della vera identità di Dio.
Matteo è meno raffinato, ma altrettanto efficace.
La folla, i sacerdoti, i ladroni, sbeffeggiano Gesù, lo ridicolizzano.
Non ha potenza, non ha efficacia la sua profezia,
non è capace nemmeno di salvarsi,
altro che distruggere il tempio!
(Leggete se volete il brano di Matteo 27,39-44).
A Gesù è proposta una specie di compromesso;
non sono bastati i tanti miracoli compiuti, le parole, i gesti.
Deve ancora compiere un miracolo, il più eclatante;
scendere dalla croce: “Il Cristo, il Re d’Israele, scenderà
ora dalla croce, affinchè vediamo e crediamo” (Marco 15,32).
A quel punto, certo, tutti si convertiranno.
Per convertirsi, la folla chiede a Gesù di evitare la croce.
Buffo, potevano evitargliela loro, la croce; o no.
Invece lo hanno crocifisso per vedere se scende dalla croce.
Contraddizione della stupidità umana!
Gesù non ama la croce, non l’ha desiderata,
l’ha assunta, non ha potuto evitarla.
Come le tante persone che si trovano inchiodate
a una croce senza scegliere, senza poter fuggire,
(una malattia, un lutto, una depressione),
Gesù non scende, non fugge, non vuole sconti,
accetta fino in fondo di condividere il destino degli
sconfitti e degli ultimi, dei perdenti di tutti i tempi.
Al condannato veniva appeso al collo una tavola in legno,
riportante la ragione della condanna a morte.
Nel caso di Gesù questo cartello è posto sopra la croce,
dal che gli storici deducono che la croce fosse nella forma che
tutti conosciamo, non a “T” detto Tau, come abitualmente era.
Giovanni, però, fa una precisazione riguardante il titolo della condanna.
(Leggete se volete il brano di Giovanni 19,19-22).
È l’ultimo schiaffo di Pilato al Sinedrio, una spietata burla
nei confronti dei sacerdoti; hanno voluto che il Nazareno
fosse condannato a morte per il reato di lesa maestà,
visto che si era spacciato per Messia,
cioè per il re dei giudei.
Bene; che tutti sappiano, allora, che Gesù è, appunto il re dei giudei.
Il cartello appeso sopra la croce è un’offesa ai giudei che passano;
ma come, quel poveraccio è il loro re?
E Roma mette in croce il loro re?
A quel punto Caifa capisce la gaffe che ha fatto,
va da Pilato per convincerlo a togliere il titolo.
Come il gatto fa con il topo, Pilato, ovviamente, si rifiuta.
La scritta è in tre lingue, per essere ben letta da tutti
(aramaico, latino e greco).
Giovanni, ancora una volta, osa svelare la trama che ha fatto
comprendere gli eventi agli uomini; davvero Gesù è il Re dei giudei,
e questa regalità, ora, sarà riconosciuta da tutti i popoli.
Ecco il nostro Re, discepoli, il nostro sovrano; invece del trono,
ha una croce, non indossa una corona preziosa,
ma una fatta di spine, non uno scettro,
ma una canna con cui è stato percosso.
Ecco il nostro Re; talmente sfigurato e irriconoscibile
da necessitare di un cartello che lo identifichi.
Un perdente. Un folle.
Uno che ha bisogno di tutto.
Chiedo; lo vogliamo davvero un Dio così?
Sul serio? Ne dubito!
Noi che cerchiamo un Dio che ci appoggi,
che ci sostenga, potente, efficace, interventista,
lo vogliamo davvero un Dio così?
Pensiamoci bene, e riflettiamo su quello che andiamo a leggere.
IL BUON LADRONE!
È una delle figure più simpatiche e conosciute dell’intero
Vangelo; uno dei condannati assieme a Gesù, secondo Luca,
invece di insultarlo e di chiedere un aiuto, elemosina un ricordo.
Una pagina struggente, straordinariamente, tenerissima.
(Leggete se volete il brano di Luca 23,40-43).
Chiama Gesù per nome, senza aggiungere titoli.
È l’unico caso in tutti i vangeli in cui si usa il
nome di Gesù senza alcuna aggiunta.
È l’esperienza nuda e cruda dell’umanità del Signore;
sulla croce Egli si è spogliato di ogni veste regale,
di ogni titolo, di ogni ruolo.
La sofferenza è un’esperienza che annulla le differenze.
E il ladro lo riconosce come tale, come uomo che soffre.
Non chiede salvezza; le sue mani grondano sangue,
non vuole una soluzione all’ultimo secondo.
È turbato il ladro, perché vede un innocente che muore!
Ha un alto senso della giustizia; tutto sommato lui si
merita quella fine, quel Nazareno no.
Zittisce il compagno  che insulta Gesù e gli chiede un ricordo.
Abbiamo paura di essere dimenticati, di non contare, di passare
nella nostra vita terrena senza lasciare alcuna traccia.
La Bibbia ci rassicura.
Sion diceva: “Il Signore mi ha abbandonato,
il Signore mi ha dimenticato.
Forse che la donna si dimentica del suo lattante,
cessa dall’aver compassione del figlio delle sue viscere?
Anche se esse si dimenticassero, io non ti dimenticherò.
Ecco, ti ho descritta sulle palme delle mie mani,
le tue mura sono sempre al mio cospetto” (Isaia 49,14-16).
Il ladro, come ogni uomo, chiede un ricordo.
Accetta, Gesù, e gli promette di più; gli promette il paradiso.
Secondo la tradizione, il ladro si chiama Disma,
e nell’ultimo istante della sua vita è riuscito a scroccare la
grazia del perdono al Signore, ecco la misericordia di Dio.
Il paradiso, nel Vangelo, è la beatitudine dell’esperienza di Dio,
il farne esperienza.
Il ladro, il reietto, il peccatore, il violento, sperimenta
la presenza di Dio.
È la misericordia che dilaga, nel Vangelo di Luca;
il ladro sperimenta in anticipo la salvezza.
Perché? Perché ha creduto.
Dio desidera la nostra salvezza, quando lo capiremo?
Desidera il nostro bene, senza porre condizioni.
Del ladro non abbiamo conservato il nome, ma solo
quell’aggettivo, buono, che ne delinea il carattere.
Buon ladrone, nel senso di ladrone con il cuore compassionevole.
Ma buon ladrone anche nel senso di abile.
Gli è riuscito il colpo più spettacolare della sua carriera;
ha rubato il paradiso.
LA MADRE.
I minuti passano, poi le ore.
I lamenti dei condannati diminuiscono, la loro voce si affievolisce.
Non hanno nemmeno la forza di lamentarsi,
il dolore ormai li stordisce, tutto il corpo si rattrappisce
intorno a quei chiodi da cui pendono.
Anche la folla si dirada; si tratta di entrare in città per
preparare la pasqua, mentre nel tempio, da qualche ora,
si sacrificano gli agnelli della pasqua.
I sacerdoti se ne sono andati, lasciando qualcuno a vedere
l’epilogo, per preparare la solenne liturgia nel tempio.
I soldati romani allentano la guardia.
Ad alcune persone, i famigliari più stretti,
si permette di avvicinarsi ai condannati.
È questione di poche ore e tutto sarà finito.
Fra i presenti, i pochi presenti, c’è l’autore del quarto Vangelo,
il Giovanni forse sacerdote che ha ospitato Gesù durante la Cena.
Non ha da temere ripercussioni come gli altri discepoli
della prima ora che sono fuggiti a gambe levate;
dev’essere un personaggio importante.
Ha assistito al processo, ha seguito Gesù al Golgota.
Ora sappiamo che, insieme a lui, c’è Maria, la Madre del Signore.
Quando è giunta a Gerusalemme?
Non lo sappiamo.
Sappiamo che, nel momento più terribile, è presente.
È difficile assistere alla morte di una persona che si ama.
Tragico, vedere la morte di un figlio.
Insostenibile, vedere la morte orribile di Gesù.
Maria è presente, sotto la croce, insieme ad alcune altre donne.
Nessun angelo a cantare la gloria di Dio, ora,
nessuna rassicurante apparizione.
Eccola lì, la promessa di Dio. Eccolo il Salvatore.
L’aveva accolto con timore e gioia,
nel suo grembo, molti anni prima.
Gli aveva insegnato a camminare, a parlare, a pregare.
Lo aveva visto crescere, farsi uomo.
Aveva atteso con ansia la sua partenza, chiedendosi,
davanti al suo temporeggiare, se non si fosse sbagliata. Poi.
Arrivano le prime notizie da Cafarnao, da Cana, da Magdala.
Notizie portate in paese dai mercanti,
che parlano del falegname divenuto profeta.
Poi Gerusalemme, le prime difficoltà,
l’ostilità aperta dei sadducei e dei farisei.
Infine la notizia, giunta chissà come a Nazaret,
dell’imminente arresto di Gesù.
Eccola, la Madre.
Dov’è, ora, la promessa di Dio? Dove?
Si era forse illusa?
Si era sognata una chiamata inesistente?
Scrive Giovanni.
(Leggete se volete il brano di Giovanni 19,25-27).
Le donne stanno.
Meglio; dimorano irremovibili, tengono duro, non cedono.
Maria, la Madre, dimora nella fede, non cede.
In quel momento, tutto il Regno di Dio è rappresentato
da quelle poche donne radunate intorno alla Madre.
C’è bisogno di donne, quando serve la costanza irremovibile.
Gesù, con un soffio di fiato, vede la Madre e Giovanni,
e gliela affida. Donna, dice.
Come a Cana, prima del miracolo, la chiama donna.
Non è più sua Madre, da tempo l’ha donata,
come Lei ha donato Lui.
Si sono fatti dono reciproco.
Come dovrebbe essere in ogni relazione d’amore.
Secondo la tradizione Giovanni, da quel giorno,
prese e portò con sé Maria.
Da quel giorno, ogni discepolo del Signore sa che può
prendere Maria con sé, come discreta presenza nel
suo percorso di vita interiore.
LA MORTE.
Il vento del mare sta portando nubi che si fanno minacciose,
cariche di pioggia.
La gente che entra in città affretta il passo per non farsi
sorprendere dal temporale imminente.
Tutti gli evangelisti annotano questo repentino cambio di tempo.
Dall’ora sesta fino all’ora nona si fece buio
su tutta la terra (Matteo 27,45).
Il cielo si scurisce, come se anche la natura
partecipasse all’agonia di Dio.
Tutto è nuvoloso e buio, come il cuore delle persone
che hanno partecipato alla crocifissione.
Si fa buio, da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio.
Quell’annotazione temporale è colma di speranza;
ha un limite la tenebra, non può albergare
per sempre, nei nostri cuori.
Da mezzogiorno alle tre, ecco i confini entro
cui può abitare la disperazione, non un minuto di più.
Fratello che soffri, sorella dilaniata dalla solitudine e dalla
depressione, il tuo dolore ha un confine, non ti disperare.
SETE.
Il silenzio è irreale, i condannati sono immobili,
respirano a fatica, non dicono una parola.
Anche chi piange, ormai, ha esaurito le lacrime.
I caldi colori della Giudea si sono stinti
in un grigio sempre più scuro.
Gesù, con un soffio di voce, parla.
(Leggete se volete il brano di Giovanni 19,28-29).
Ha sete. Sete di amore, di pace, di giustizia,
sete della nostra fede. Solo sete.
Il nostro è un Dio assetato d’amore,
come noi, sperimenta il limite di un desiderio
quasi sempre insoddisfatto, di uno slancio arrestato,
di un anelito senza soddisfazione.
Ha sete, come ha avuto sete aspettando che
la fede della Samaritana lo dissetasse (Giovanni 4,4).
Ha sete colui che può dissetare chi cerca la felicità
e il bene, come aveva detto al tempio.
L’ultimo giorno, quello solenne della festa, Gesù stava
in piedi e proclamava a gran voce: “Se qualcuno ha sete,
venga a me e beva.
Colui che crede in me, come disse la Scrittura; dal suo
ventre sgorgheranno fiumi di acqua viva” (Giovanni 7,37-38).
Ha sete della mia fede, della nostra fede.
LE ULTIME PAROLE.
Sono quattro versioni diverse, molto diverse, forse troppo.
Quali parole ha pronunciato Gesù sulla croce?
Quali sono state le sue ultime parole?
Ogni evangelista dà la sua versione.
Forse Gesù le ha pronunciate in tempi diversi, non lo sappiamo.
Ogni evangelista, però, ha ritenuto quelle che più lo hanno colpito.
Marco è diretto e asciutto, come al suo solito:
“Ma Gesù, emesso un grande grido, spirò” (Marco 15,37).
Gesù grida.
Il suo è un ultimo agghiacciante grido di dolore, che svela
la sua partecipazione assoluta al destino degli uomini.
Un grido che è un disperato soffio di vita,
impressionante, messo in bocca a Dio.
Ecco, Dio ora conosce tutto, anche il nulla.
Come se sapesse tutto del niente,
e niente del tutto che ha creato.
Restiamo interdetti, senza parole,
davanti alla misura di questo dono senza misura.
Il nostro ragionamento entra in corto circuito,
davanti all’ampiezza di questo mistero.
Dio conosce la disperazione, perché nessun uomo
possa sentirsi abbandonato.
Ha preso l’ultimo posto, perché nessuno possa sentirsi ultimo.
Matteo approfondisce e dilata la riflessione.
(Leggete se volete il brano di Matteo 27,45-49).
Gesù cita un salmo, il ventidue. Lo grida.
A volte anche un grido diventa preghiera.
Gesù conosce i salmi, lo hanno accompagnato nella sua crescita
interiore, nella presa di consapevolezza della sua identità.
Li ha ascoltati, cantati come ninna nanna dalla Madre, quand’era
piccolo, li ha recitati nella sinagoga di Nazareth, in età adulta.
Ha pregato con la Parola stessa di Dio, ha fatto
scaturire dal di dentro la Parola che lungamente aveva
assaporato durante la meditazione personale.
Prega, Gesù, le sue ultime parole sono un grido di angoscia,
una richiesta d’aiuto.
Un’accusa verso Dio, ma detta con le Parole stesse di Dio.
Dio non ha bisogno di applausi o di carezze,
o di timori reverenziali.
Accetta ogni parola, ogni grido, ogni bestemmia,
se esprimono verità e richiesta di aiuto.
Gesù muore pregando.
È un’accusa, la sua, una disperata richiesta di aiuto,
ma è usata come una preghiera.
Chiede a Dio perché non c’è, perché non si fa presente.
Vorrei fosse così anche per me.
Vorrei poter dire, come ultima parola, quell’Abbà,
che ha così lungamente riscaldato il mio cuore bucato.
E la preghiera è un interrogativo;
Dio si chiede perché Dio l’abbia abbandonato.
Come se, per un attimo Dio diventasse incredulo.
Incredulo per quanta solitudine l’uomo può sperimentare,
solitudine che Dio, per sempre, assume.
Da ora, e per sempre, nessun Cristo morirà disperato.
Nessuno può più perdersi, ora che Dio si è perso.
La folla pensa che Gesù invochi Elia.
Sarebbe un bel finale, degno di un film americano;
Gesù che scende dalla croce per mezzo di Elia.
È già venuto Elia, ma anche il Battista, e hanno
fatto fuori anche lui, non siamo ridicoli.
Luca, che si è informato,
sceglie un’altra delle affermazioni di Gesù.
E Gesù, gridando a gran voce: “Padre, nelle tue
mani raccomando il mio spirito” (Luca 23,46).
Luca conferma che Gesù muore pregando.
Si affida, si dona, sa bene in chi ha posto la sua
fiducia e il suo destino.
Lo dice ad alta voce, vuole che tutti sappiano che fra
Lui e il Padre c’è un legame di fiducia totale, di dono di sé.
Ma è Giovanni, al solito, a dare un colpo d’ali,
forse perché era sotto la croce.
L’ultima parola di Cristo in croce non è un grido,
né un salmo di disperazione o uno di fiducia.
È l’affermazione di una missione compiuta,
quella affidatagli dal Padre.
Quando ebbe preso l’aceto, Gesù disse:
“Tutto è compiuto” (Giovanni 19,30).
Ciò che andava fatto è stato fatto,
ora sta al Padre continuare.
Abbiamo tutti una missione da compiere,
una missione d’amore che Dio ci affida al
momento della nostra nascita,
un tesoro nascosto da scoprire e da condividere.
Non pensate subito a grandi opere, o a scoperte
straordinarie; a volte sono piccole le cose che
danno senso alla vita e che salvano il mondo.
Ecco; Gesù ora, ha terminato il suo percorso.
Ciò che poteva fare è stato fatto.
È tempo di morire. Finalmente! SPIRÒ.
Ha lottato duramente per parecchie ore,
ma il suo corpo è debilitato, prostrato,
non vuole più combattere.
La terribile macchina della croce ha sortito il suo effetto;
la respirazione è affannosa, i polmoni sono stretti
dai muscoli irrigiditi, le gambe non riescono più a sollevarsi
per placare la fame d’aria, il cuore cede, Gesù muore.
Ma Gesù emise di nuovo un forte grido
ed esalò lo spirito (Matteo 27,50).
Muore; restituisce lo spirito che ci tiene in vita,
quel soffio che ci rende partecipi di Dio.
Ora esce, esala.
Giovanni dice; lo rende, lo dona.
Lo Spirito, che è dono di Dio, ci è donato sulla croce,
ultimo dono di Gesù ai credenti.
Anche morendo, Gesù compie un’opera di vita,
una nuova creazione.
La sua non è una fine, ma un nuovo cosmo che
sta per prendere vita.
IL VELO.
Gesù è morto.
Nel tempio, decine di sacerdoti, a ritmo sostenuto,
sgozzano decine di migliaia di agnelli,
per offrirli al Signore e restituirli ai proprietari che li avrebbero
cotti al fuoco di brace e mangiati insieme alle erbe amare,
un agnello per famiglia, da consumare tutto, senza avanzarne.
Anche l’Agnello di Dio, ora, pende, senza vita.
Sono Marco e Matteo che riferiscono il particolare,
all’apparenza insignificante.
Allora il velo del tempio si squarciò in due,
dall’alto fino al basso (Marco 15,38).
Il tempio era un complesso sistema di edifici, infilati
l’uno dentro l’altro come un gioco di scatole cinesi.
Al centro, nel luogo più inaccessibile,
troneggiava il Santo dei Santi, un alto edificio con una sola
apertura, circondato da una serie di cortili e di alte mura.
Al suo interno si trovavano due ambienti; un atrio e il Santo
vero e proprio, che al tempo di Salomone, custodiva l’arca
dell’alleanza contenente le tavole della legge,
il bastone di Aronne e un po’ di manna.
Da tempo, tutto ciò era stato depredato, e il Santo dei Santi
era vuoto, con grande stupore dei romani che lo violarono.
Ma era comunque il luogo inaccessibile, il luogo della gloria di Dio,
abitato dalla sua presenza.
Luogo cui poteva accedere solo il sommo sacerdote, una volta
all’anno, per versare il sangue del sacrificio, il giorno dell’espiazione.
Quel luogo era diviso dall’atrio da un pesante tendaggio,
lungo dal soffitto al pavimento.
Quel velo, annotano gli evangelisti, si strappò, dall’alto in basso,
da Dio all’uomo, dal mistero all’evidenza.
Dio non è più inaccessibile, è osteso, evidente, appeso.
Dio non è più misterioso, non dimora in un luogo inaccessibile,
non è più altrove, è qui, raggiungibile, incontrabile,
lo possiamo vedere, sfiorare, accarezzare.
Il capovolgimento è compiuto; il sommo sacerdote volge lo
sguardo al Santuario, al Santo dei Santi, definitivamente vuoto.
Così come la nube della presenza di Dio abbandonò il tempio
per seguire il popolo deportato in esilio, ora, e per sempre,
Dio abbandona il tempio di pietra per
condividere la morte dei malfattori.
La croce, ora, è il tempio.
Quell’atroce strumento di tortura e di morte, ora,
è il luogo della gloria di Dio.
Lo diventa perché altare della manifestazione,
della misura dell’amore di Dio, lo diventa perché
ostende e realizza pienamente l’assoluto di Dio.
CONVERSIONI.
Tutto è compiuto.
Gesù ha dato tutto, goccia dopo goccia, stilla dopo stilla. Tutto!
Chi ha assistito esprime sentimenti diversi.
I sadducei, di feroce soddisfazione,
certi di avere fatto una cosa giusta.
I discepoli, di silenziosa disperazione.

Alcuni presenti, di turbamento e di conversione. E noi?
Il primo a testimoniare stupore è il centurione romano.
Un ufficiale abituato alla violenza, che serviva Roma
anche in quei frangenti così spietati e sgradevoli.
Non sappiamo nulla di lui; ha gestito il picchetto di
soldati di complemento per la crocifissione,
ha osservato l’agonia dei condannati.
Marco ci dice che si è posto di fronte a Gesù,
lo ha lungamente osservato, è rimasto turbato, scosso.
Ne ha visti morire, di malfattori.
Li ha visti urlare come delle bestie scannate, contorcersi,
nudi, intorno ai chiodi insanguinati, li ha sentiti piangere,
bestemmiare, singhiozzare come dei bambini.
Ha fatto l’abitudine a quello spettacolo atroce,
a quella morte oscena.
Gesù no, non ha inveito, ha pronunciato parole di perdono,
è morto come mai egli ha visto morire un crocifisso.
E il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare
gridando a quel modo, esclamò: “Davvero quest’uomo
era Figlio di Dio!” (Matteo 15,39).
La sua professione di fede è la professione
di fede della comunità di Marco.
Siamo chiamati a riconoscere in Gesù il Figlio
di Dio non quando le cose vanno bene, ma ora,
quando la divinità è nascosta, mascherata, offuscata.
Siamo chiamati a credere che quel poveraccio
sfigurato e spezzato è il creatore del mondo.
È Dio, non perché perdente, ma per come è morto,
donandosi fino in fondo, vivendo ciò che ha detto
nei brevi anni della sua vita pubblica.
Siamo tutti bravi a parlare, tutti santi e moralisti,
quando si tratta di dare consigli.
Ma quando siamo messi a dura prova, allora esce
fuori il meglio o il peggio di noi stessi.
Gesù testimonia che è esattamente ciò che ha detto di essere.
La sua è una morte coerente, esemplare, inattesa, luminosa.
È poco probabile che il centurione,
abbia pronunciato quelle esatte parole.
Con maggior precisione Luca riporta.
Il centurione, vedendo l’accaduto, glorificava Dio:
“Certamente quest’uomo era giusto” (Luca 23,47).
La morte del giusto, il clima di perdono che è riuscito a
portare in quell’inferno, dice Luca, rendono gloria a Dio.
Il pagano romano invoca Dio e lo pensa presente,
vedendo quella morte.
I nostri gesti, compiuti con giustizia, la nostra
capacità di perdono,
la nostra benevolenza, rendono gloria a Dio,
avvicinano le persone al mistero della redenzione.
La nostra vita di fede illumina anche chi ci sta accanto,
se vissuta con autenticità e passione.
LA FOLLA.
La folla manipolata, quella che, all’ingresso di Gesù
a Gerusalemme gridava Osanna; quella che,
sospinta dai sadducei e dai capi religiosi ha
richiesto la crocifissione di Gesù, quella che,
silenziosa e muta, assiste alla morte del profeta,
ora reagisce in maniera diversa.
Ha preso consapevolezza di sé, è tornata sui propri passi,
non è più condotta da altri.
La folla, ora, è meditabonda e silenziosa.
Anche tutti quelli che erano convenuti per
questo spettacolo, davanti a questi fatti se ne tornano
a casa battendosi il petto (Luca 23,48).
Hanno partecipato ad uno spettacolo, una manifestazione.
Come la folla radunata dall’imperatore al Colosseo assisteva
ai giochi, ai massacri fra gladiatori, alle lotte fra uomini
e belve; un’orgia di violenza, di sangue, di follia.
Ma questo spettacolo è stato inatteso,
diverso, completamente diverso.
Meditando il mistero della croce, anche noi possiamo
tornare sui nostri passi percuotendoci il petto,
cioè rianimando il nostro cuore, scuotendolo,
allargandolo alla misura di Dio.
Tutti noi possiamo assistere sulla via Crucis,
allo spettacolo di un Dio che muore per amore.
E convertirci. Io per primo.
LE DONNE.
Sia Marco sia Luca annotano un particolare sui discepoli;
tutti i suoi amici e le donne che lo avevano seguito
fin dalla Galilea se ne stavano lontano,
osservando tutto ciò che accadeva (Luca 23,49).
Non tutti sono fuggiti.
Alcuni, anche se da lontano, hanno continuato a seguire Gesù.
Nel momento della prova può succedere di allontanarsi
dal Signore, di essere lontani.
L’importante è non perdere di vista il Signore,
seguirlo, anche solo con la coda dell’occhio.
Per sapere dove l’hanno messo e tornare da Lui,
anche se lo consideriamo, ormai, un cadavere.
Fratello in crisi, che fatichi a credere, che sei stato masticato,
come gli apostoli, segui il Signore, anche se da lontano, non andartene.
TERREMOTI.
Matteo esagera, si allarga, e sa di farlo.
State sereni; la sua è un’annotazione teologica, non storica.
Richiama i segni degli ultimi tempi, della manifestazione
di Dio al popolo di Israele, e allora, come fanno i pescatori
che raccontano della loro pesca, esagera un po’.
(Leggete se volete il brano di Matteo 27,51-53).
Il linguaggio che usa ha a che fare con i profeti
apocalittici, è come se Matteo dicesse; davvero
il Messia è venuto, e si rivela morendo in croce,
anche il cosmo riconosce la sua presenza.
Mi piace, calcare la mano, meditando la passione,
anche a noi può succedere di subire un terremoto interiore,
di veder spaccare in noi la pietra che ci impedisce di gioire,
di uscire dai sepolcri in cui ci siamo sepolti,
di lasciar venir fuori il santo che c’è in ciascuno di noi.
La presenza del Signore, credetemi, è una potenza,
una forza che costruisce, che scuote,
che rianima, che sbalordisce.
Ciò che Matteo descrive come evento messianico è evento
che può scatenarsi nel discepolo che assiste allo spettacolo,
guardando di fronte Gesù che muore, come il centurione.
SANGUE E ACQUA.
L’ora del tramonto si avvicina,
e con esso l’inizio solenne della festa di pasqua.
Non si possono lasciare i condannati in croce,
la cosa contravviene alla legge (Deuteronomio 21,22-23),
bisogna accelerare la morte.
Il metodo è semplice e crudele;
con un colpo di bastone alla tibia,
i soldati frantumano le ossa delle gambe,
impedendo al condannato di rialzarsi a prendere aria.
La morte per asfissia sopraggiunge in pochi minuti.
Giovanni descrive minuziosamente l’orrenda procedura.
(Leggete se volete ilbrano di Giovanni 19,31-37).
Arrivati da Gesù, i soldati vedono che è senza vita.
Per sicurezza, un soldato gli assesta un colpo di grazia,
un colpo di lancia dato quasi in orizzontale, sotto il costato,
a destra, un colpo che, normalmente, trapassava il cuore.
Molti studiosi, quasi tutti anatomopatologi,
hanno cercato di interpretare il racconto di Giovanni,
per capire cosa sia successo.
Gesù, morto, ha iniziato il processo di coagulazione
del sangue, che divide la parte liquida da quella solida.
Il soldato colpisce una zona di accumulo del sangue,
forse il pericardio, o la pleura, che si svuota come
un palloncino riempito d’acqua, lasciando vedere il
siero (l’acqua) e la parte ematica (il sangue).
Giovanni lascia intendere che quella divisione,
sangue e acqua, ha una rilevanza, richiama la salvezza
e la redenzione, la croce e il battesimo.
La solennità con cui Giovanni racconta l’intera
scena è un invito ad andare al di là degli eventi;
quella a cui abbiamo assistito non è la morte di un
poveraccio ucciso per interessi politici e religiosi,
ma il compimento delle profezie riguardanti il Messia.
Il particolare della tunica, delle ossa non spezzate e della
fuoriuscita del sangue e dell’acqua sono, per Giovanni,
la manifestazione della profezia riguardante il Messia.
Solo chi conosce la Scrittura e ha il cuore aperto al
soffio dello Spirito, sembra dire Giovanni,
può accorgersi di chi sia veramente quell’uomo trafitto.
Così accade anche oggi; solo chi ha il coraggio di
seguire Gesù nelle sue ultime ore,
senza fuggire come il giovinetto scandalizzato nell’orto,
o come i discepoli, ma dimorando sotto la croce,
può capire chi è veramente colui che pende dalla croce.
E inorridire. O cadere in ginocchio.
Ecco tutto è compiuto. Dio si è definitivamente donato.
LA SEPOLTURA.
Mi immagino il volto di Nicodemo e di Giuseppe
di Arimatea che sorreggono il cadavere, uno dal capo,
l’altro dai piedi; dietro al Cristo, le statue di Giovanni,
della Maddalena, di Maria e di una discepola
esprimono disorientamento e dolore.
Cristo no, è il centro immobile della composizione.
Tutto è compiuto.
Mentre scrivo socchiudo gli occhi e ripenso alla scena,
mi ritrovo al Calvario.
Sento l’odore del temporale in arrivo e del sangue.
La folla se n’è andata in tutta fretta per non prendersi
l’acquazzone, i soldati calano senza riguardo i cadaveri
per gettarli nella fossa comune.
Gesù no, passa prima dalle braccia della Madre!
La Madre strige il Figlio esamine.
Una scena fortissima, straziante, intensa.
Quanto silenzio, quanto dolore, quanta forza!
I romani avevano l’orribile consuetudine di lasciare i
cadaveri appesi alla croce, in preda agli animali e ai corvi,
soprattutto quelli condannati per lesa maestà; un terribile
monito per tutti i sudditi.
La concessione del corpo ai famigliari era un’eccezione,
fatta per manifestare la generosità di Roma;
troppo buoni, perché: “In Cina, i famigliari del condannato
a morte devono pagare il prezzo della pallottola con cui
si procede all’esecuzione, se vogliono il corpo….”.
In Giudea, però, le cose funzionavano diversamente;
non c’era nessuna intenzione di forzare la mano,
di accentuare i dissidi, perciò i corpi erano restituiti ai famigliari
che ne facevano richiesta, tanto più in quella vigilia di pasqua.
Il tutta fretta, perciò, i famigliari, aiutati dai soldati,
devono schiodare i piedi del condannato,
deporlo in un lenzuolo e provvedere alla sepoltura.
Una procedura terribile; il corpo del condannato è irrigidito
dalla contrazione tetanica dei muscoli, e il corpo si può
trasportare come se fosse irrigidito, in catalessi.
Una volta calato con il patibolo, il cadavere è portato
nei pressi della tomba, dove gli sono schiodati i polsi.
La presenza, in una tomba ritrovata a Gerusalemme,
di uno scheletro con il chiodo dei piedi ancora conficcato
nelle ossa, la dice lunga sulla delicatezza di tale procedura.
Marco, cioè Pietro, ( sappiamo che marco ha scritto
il suo Vangelo ascoltando quello che gli diceva Pietro),
ci fa un resoconto dettagliato della sepoltura di Gesù.
(Leggete se volete il brano di Marco 15,42-47).
È Giuseppe d’Arimatea a trovare il coraggio.
È un influente membro del Sinedrio, insieme a Nicodemo.
Non è riuscito a salvare Gesù dalla condanna e ora vuole,
almeno, dargli una sepoltura degna.
Entra da Pilato, piuttosto impressionato che un membro
del Sinedrio contragga l’impurità alla vigilia
della pasqua entrando da un pagano,
pur non essendo un famigliare del condannato,
e chiede il corpo del Nazareno.
Pilato è stupito della velocità della morte di Gesù,
e concede la sepoltura privata.
Giuseppe compra un lenzuolo, una sindone di prezioso lino,
e fa deporre Gesù in una tomba adiacente al Golgota,
la tomba che ha fatto preparare per sé, una tomba preziosa,
di un uomo importante, scavata nella roccia e
protetta da una pesante chiusura in pietra.
Come quella che chiude il nostro cuore!
Contrae l’impurità per la seconda volta, toccando un cadavere.
Non avrà più tempo per purificarsi.
Non celebrerà la pasqua.
Non ne ha neppure voglia,
ora che il suo cuore è gonfio di dolore.
Non ha da preoccuparsi, Giuseppe d’Arimatea;
fra pochi giorni potrà celebrare una Pasqua nuova.
E rivedere il suo Maestro.
Ci sono dei momenti, nella vita, in cui il nostro
cuore è impietrito, insensibile, raggelato, in cui non
abbiamo più nulla da offrire al Signore, in cui abbiamo
l’impressione che Dio, nella nostra vita, sia morto e sepolto;
in quei momenti non ci resta che offrire il nostro cuore,
freddo come una tomba, e accogliere il Cristo perché lo riscaldi.
L’ultimo regalo fatto a Gesù è una tomba scavata nella pietra.
L’ultimo, disperato, straziante gesto di affetto di un discepolo
che pensava di avere trovato in Gesù la novità della fede,
la pienezza della vita, il sorriso di Dio.
Giuseppe non ha potuto salvare il suo Maestro.
Non i suoi denari, non la sua influenza,
non la sua cultura, l’hanno salvato.
Con il cuore pesante, non gli resta che offrire la sua tomba.
Non ha da preoccuparsi, Giuseppe;
fra tre giorni gli verrà restituita, intatta.
Gli lascio un solo suggerimento; è bene che si
guardi in giro e che trovi un’altra tomba;
quella che ospita temporaneamente il cadavere di Dio
sarà luogo di culto e di contraddizione, per millenni.
I romani ricostruendo Gerusalemme rasa al suolo dalle
truppe di Tito, penseranno bene di edificare su di essa
un tempio dedicato a Venere, per impedire ai discepoli
del Nazareno di radunarsi in quel luogo.
La regina Elena, madre dell’imperatore cristiano Costantino,
farà abbattere il tempio e ritrovare la tomba,
la cui memoria era stata conservata preziosamente
per due secoli dalla comunità locale.
Il sepolcro non ha bisogno dello splendore, ne della
dignità che vorremmo attribuirgli devotamente.
La tomba che non è riuscita a contenere Dio,
non ha bisogno delle nostre devozioni.
Ma è lì, coperta di marmi e stoffe, un piccolo luogo al
centro di una grande cupola pericolante, a ricordare
a tutti che Dio non è stato sconfitto.
No, la tomba, a Giuseppe d’Arimatea, non verrà più restituita.
Per quel che gli importa.
Giovanni inserisce nel racconto anche la presenza di Nicodemo,
un importante rabbì fariseo che cerca Gesù,
anche se di notte, per non sbilanciarsi troppo.
Come abbiamo già visto, Nicodemo cercherà in qualche
modo di proteggere Gesù, di chiedere per
Lui un procedimento giusto, senza ottenerlo.
Ora che Gesù è morto, Nicodemo non ha più paura di esporsi,
anche di fronte ai suoi confratelli di fede e al Sinedrio.
Perde la faccia volentieri,
per testimoniare il suo affetto per il Maestro.
Venne anche Nicodemo, il quale già prima era
andato da Lui di notte, portando una mistura di mirra
e di aloe di circa centro libbre (Giovani 19,39).
Alcuni storici, storcono il naso; non era affatto abituale,
in Israele, imbalsamare un cadavere e la quantità
degli unguenti (trenta chili!) è davvero sproporzionata.
Probabilmente la grande mole di mirra e aloe servivano
ad evitare temporaneamente la decomposizione
del corpo di Gesù, essendo degli antisettici naturali,
per poter in seguito provvedere ai riti di lavaggio
e di purificazione, impediti dalla fretta della sepoltura.
Come sempre Giovanni è uno storico affidabile,
pur sovrapponendo gli eventi e la loro interpretazione.
Da parte mia, ho una sola annotazione da fare a Nicodemo;
gli onori, ai profeti, è meglio farli da vivi, che da morti.
Troppe persone si schierano dopo , troppi profeti sono
riconosciuti come tali dopo la loro morte (spesso tragica).
Cerchiamo di essere coerenti, per favore.
La pietra è posta dinanzi al sepolcro,
per impedire agli animali di violare il corpo di Gesù.
Dal tempio arriva il suono di richiamo che annuncia
l’inizio della festa, tutti rientrano in casa per accendere
le luci di quel sabato particolare, che coincide
con la festa di pasqua.
Nicodemo e Giuseppe non parteciperanno alla festa,
probabilmente, essendosi contaminati con un cadavere.
Così come gli apostoli,
fuggiti e nascosti nelle campagne attorno alla città.
Non celebrerà la pasqua neppure Giovanni,
rifugiatosi con la Madre di Gesù,
nella città alta, negli alloggi dei sacerdoti.
Pilato, cenando alla fortezza Antonia, o al Pretorio,
penserà alla bella soddisfazione presa con il Sinedrio e
proverà disagio ricordando quel Galileo un po’ filosofo.
La gente, in casa, canterà la benedizione,
mentre un bambino porrà la domanda rituale;
cosa festeggiamo oggi?
E il capo famiglia racconterà la fuga dal faraone
del popolo guidato da Mosè.
Gesù, cadavere,
giace nell’oscurità di una tomba scavata nella roccia.
Fine della storia, fine dell’illusione,
fine di una brillante carriera di profeta.
Fine di un sogno.
Fine di un normale movimento religioso moderno.
Fine!    O forse no. Il dopo è un’altra storia!     
   
    


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