Padrone buono, operai
cattivi.
Amare fino a donarsi, amare fino
morirne.
L’inquietante festa dell’esaltazione
della croce di Gesù,
esaltazione dell’amore, non del dolore,
ci sprona a guardare con maggiore
attenzione al
volto di questo Dio che è disposto a
morire per
indicare agli uomini la strada della
piena realizzazione:
il dono di sé.
Gesù usa ogni strumento, prima
dell’ultimo,
definitivo segno dell’ostensione, per
convertire il
cuore intorpidito e stordito di noi
uomini.
Ama, in particolare, l’uso delle
parabole.
Le parabole sono racconti ancorati alla
vivida
realtà quotidiana delle persone che
Gesù aveva dinnanzi.
Oggi la liturgia ci propone la parabola
di quel
padrone che esce a prendere degli
operai a giornata per
la sua vigna, scena ancora molto
diffusa nei
grandi paesi del Sud Italia.
L’immagine della precarietà più
assoluta, della speranza
riposta nell’umore di un padrone che deve
scegliere
(in base a cosa? Mah…) chi far lavorare
e chi no.
Ma il padrone della parabola di Gesù,
evidentemente, è un tipo strano.
Ha decisamente poco senso degli affari
(suoi).
(Molto quello degli altri).
(Molto quello degli altri).
Lo sprecone
Il nostro Dio è un Dio sprecone, che soffre nel vedere
Il nostro Dio è un Dio sprecone, che soffre nel vedere
i lavoratori disoccupati alle cinque di
sera,
che accetta di prenderli anche quando
sono ormai inutili nel lavoro,
quando la stanchezza e il caldo si
fanno
sentire e il ritmo diminuisce,
vedendo la conclusione della giornata
avvicinarsi.
Lo fa per dar loro dignità, per offrire
loro l’occasione
di avere uno straccio di stipendio e
mantenere la famiglia.
Cosa c’è di più umiliante e doloroso, per
un padre, per
una madre, di tornare a casa senza pane
per i figli?
Lo sa bene il padrone sprecone.
Non fa elemosina, non fa calare
dall’alto la sua generosità.
Trova un artificio: fa lavorare per
un’ora soltanto anche
gli ultimi operai, una pietosa scusa
per farli tornare a
casa con un denaro in tasca.
Dio si occupa di noi, soffre nel vederci spaesati,
Dio si occupa di noi, soffre nel vederci spaesati,
perduti come pecore senza pastore.
Dio ci ama, sul serio, ci rispetta nel
chiamarci a lavorare
nella sua vigna, non fa pesare la sua
posizione.
Questo è il Dio di Gesù: non un
concorrente,
non un tiranno, non un lunatico. Ma.
Questione di giustizia
Bella storia, bella parabola, siamo tutti contenti. O quasi.
Bella storia, bella parabola, siamo tutti contenti. O quasi.
L’accordo stabilito con gli operai
della prima ora è
quello di avere un denaro in cambio del
loro lavoro.
Patti chiari, amicizia lunga.
Patti chiari, amicizia lunga.
Poi, arriva il momento della paga, e il
padrone comincia
a pagare partendo dagli ultimi e da
loro un denaro.
Stupore inatteso per chi si vede dare
il denaro.
Stupore per quelli della prima ora che, pensano,
Stupore per quelli della prima ora che, pensano,
sicuramente riceveranno più del
pattuito.
E invece non accade; giunto il loro
turno,
ricevono anch’essi un denaro.
Malumore, ovvio.
Hanno ragione, in fondo, non è giusto
quest’atteggiamento,
occorre protestare educatamente, chiedere
almeno due
o tre denari, forse il padrone si è
distratto.
Certamente, visto il malumore, chiederanno
al padrone di più. Macchè.
Chiedono che agli ultimi sia dato di
meno.
Forti con i deboli, deboli con i forti.
Dei gran bastardi.
Bastardi dentro
Meno di un denaro.
Meno di un denaro.
Un denaro è il guadagno minimo
giornaliero per poter
dar da mangiare ad una famiglia ai tempi
di Gesù.
Invece di esercitare un legittimo
diritto (Dacci di più,
abbiamo lavorato tutto il giorno!), se
la prendono con i
deboli: chiedono di dar loro di meno.
Meno di ciò che è indispensabile per
vivere.
Terribile.
Terribile.
La rabbia di Dio
Il padrone si urta, e fa bene.
Il padrone si urta, e fa bene.
Lui è buono, non sciocco.
È buono e quindi giusto e svela la
malvagità nascosta dei primi operai.
Prima della giustizia c’è la
misericordia, sopra il diritto
e il contratto c’è l’attenzione alla
sopravvivenza.
Il padrone non ha peli sulla lingua: voi
vi nascondete
dietro la giustizia per mascherare la
vostra malvagità.
Insisto spesso sulla gratuità di Dio.
Gratuità assoluta, sconcertante, che ne
svela la bontà.
Eppure il Vangelo, a leggerlo bene, è
tutto un intreccio
di incomprensioni rispetto a questa
bontà.
Così è il prologo di Giovanni che ci
ricorda che
le tenebre non hanno accolto la luce
(Gv 1,11),
o la splendida parabola del figliol
prodigo (Lc 15),
in cui i due fratelli, chi in un modo
chi nell’altro,
non hanno ancora capito il volto del
padre,
uno scambiandolo per un ostacolo alla
sua sfrenata
libertà, l’altro nella ristrettezza di
un dovere
sopportato a malincuore.
Così è oggi, nell’inquietante parabola
dei servi
dell’ultima ora.
Che visione ho di Dio?
Davvero ho scoperto la sua bontà?
Questa bontà mi ha contagiato, sì da
riversarsi sui fratelli?
Che paga ci aspettiamo alla fine della
giornata lavorativa?
Che visione abbiamo del premio che il
Signore ci riserva?
A volte penso che siamo solo capaci di,
proiettare su Dio le nostre piccolezze.
E la logica di Dio assomiglia
terribilmente alla nostra
mediocre, rassicurante e grigiastra
logica.
Convertirsi alla bontà
Gli operai della prima non hanno capito
Gli operai della prima non hanno capito
con chi hanno a che fare.
Hanno ridotto la loro fede a fatica e
sudore.
Peggio: guardano con sospetto gli
altri,
quasi concorrenti dei loro privilegi.
Non è così per chi ha colto la luce del
Vangelo.
Stupiti, abbagliati dalla bontà del
padrone, gioiamo per
la grazia di poter lavorare nella
vigna, gioiamo per la
possibilità che altri fratelli anche
all’ultimo possano
accogliere la grazia che ci ha
trasformati.
La bontà di Dio contagi la nostra vita,
in modo da rendere
la nostra giornata lavorativa, sin
d’ora, immagine di quella
gioia che il Signore riverserà nei
nostri cuori forgiati
dalla fatica dell’amore.
Il nostro Dio, mite e umile di cuore, che
vivrà quella
pagina dall’albero della croce accogliendo
il buon ladrone,
ci faccia uscire dalle ristrettezze di una
fede “sindacale”
per percepire, almeno un poco, quale
braciere d’amore
e di bontà è il suo cuore.
Impariamo dal Signore, che è mite e
umile di cuore ...
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