VIAGGIAMO SULLE ALI DELLA MISERICORDIA

Il nostro intento e' quello di condividere l'amore del Signore e la maternità di Maria che hanno per tutti noi anche attraverso l'organizzazione di pellegrinaggi al santuario dell'Amore Misericordioso e da alcuni anni anche a Medjugorje.



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giovedì 25 settembre 2014

Il messaggio della Madonna a Marija

Messaggio da Medjugorje del 25 Settembre 2014.
Cari figli! Anche oggi vi invito perché anche voi
siate come le stelle che con il loro splendore danno
la luce e la bellezza agli altri affinché gioiscano.
Figlioli, siate anche voi splendore, bellezza, gioia
e pace e soprattutto preghiera per tutti coloro che sono
lontani dal mio amore e dall’amore di mio Figlio Gesù.
Figlioli, testimoniate la vostra fede e preghiera nella gioia,
nella gioia della fede che è nei vostri cuori e pregate per
la pace che è dono prezioso di Dio.
Grazie per aver risposto alla mia chiamata. 


domenica 21 settembre 2014

Il Dio giusto

Padrone buono, operai cattivi.
Amare fino a donarsi, amare fino morirne.
L’inquietante festa dell’esaltazione della croce di Gesù,
esaltazione dell’amore, non del dolore,
ci sprona a guardare con maggiore attenzione al
volto di questo Dio che è disposto a morire per
indicare agli uomini la strada della piena realizzazione:
il dono di sé.
Gesù usa ogni strumento, prima dell’ultimo,
definitivo segno dell’ostensione, per convertire il
cuore intorpidito e stordito di noi uomini.
Ama, in particolare, l’uso delle parabole.
Le parabole sono racconti ancorati alla vivida
realtà quotidiana delle persone che Gesù aveva dinnanzi.
Oggi la liturgia ci propone la parabola di quel
padrone che esce a prendere degli operai a giornata per
la sua vigna, scena ancora molto diffusa nei
grandi paesi del Sud Italia.
L’immagine della precarietà più assoluta, della speranza
riposta nell’umore di un padrone che deve scegliere
(in base a cosa? Mah…) chi far lavorare e chi no.
Ma il padrone della parabola di Gesù,
evidentemente, è un tipo strano.
Ha decisamente poco senso degli affari (suoi).
(Molto quello degli altri).
Lo sprecone
Il nostro Dio è un Dio sprecone, che soffre nel vedere
i lavoratori disoccupati alle cinque di sera,
che accetta di prenderli anche quando
sono ormai inutili nel lavoro,
quando la stanchezza e il caldo si fanno
sentire e il ritmo diminuisce,
vedendo la conclusione della giornata avvicinarsi.
Lo fa per dar loro dignità, per offrire loro l’occasione
di avere uno straccio di stipendio e mantenere la famiglia.
Cosa c’è di più umiliante e doloroso, per un padre, per
una madre, di tornare a casa senza pane per i figli?
Lo sa bene il padrone sprecone.
Non fa elemosina, non fa calare dall’alto la sua generosità.
Trova un artificio: fa lavorare per un’ora soltanto anche
gli ultimi operai, una pietosa scusa per farli tornare a
casa con un denaro in tasca.
Dio si occupa di noi, soffre nel vederci spaesati,
perduti come pecore senza pastore.
Dio ci ama, sul serio, ci rispetta nel chiamarci a lavorare
nella sua vigna, non fa pesare la sua posizione.
Questo è il Dio di Gesù: non un concorrente,
non un tiranno, non un lunatico. Ma.
Questione di giustizia
Bella storia, bella parabola, siamo tutti contenti. O quasi.
L’accordo stabilito con gli operai della prima ora è
quello di avere un denaro in cambio del loro lavoro.
Patti chiari, amicizia lunga.
Poi, arriva il momento della paga, e il padrone comincia
a pagare partendo dagli ultimi e da loro un denaro.
Stupore inatteso per chi si vede dare il denaro.
Stupore per quelli della prima ora che, pensano,
sicuramente riceveranno più del pattuito.
E invece non accade; giunto il loro turno,
ricevono anch’essi un denaro.
Malumore, ovvio.
Hanno ragione, in fondo, non è giusto quest’atteggiamento,
occorre protestare educatamente, chiedere almeno due
o tre denari, forse il padrone si è distratto.
Certamente, visto il malumore, chiederanno 
al padrone di più. Macchè.
Chiedono che agli ultimi sia dato di meno.
Forti con i deboli, deboli con i forti.
Dei gran bastardi.
Bastardi dentro
Meno di un denaro.
Un denaro è il guadagno minimo giornaliero per poter
dar da mangiare ad una famiglia ai tempi di Gesù.
Invece di esercitare un legittimo diritto (Dacci di più,
abbiamo lavorato tutto il giorno!), se la prendono con i
deboli: chiedono di dar loro di meno.
Meno di ciò che è indispensabile per vivere.
Terribile.
La rabbia di Dio
Il padrone si urta, e fa bene.
Lui è buono, non sciocco.
È buono e quindi giusto e svela la
malvagità nascosta dei primi operai.
Prima della giustizia c’è la misericordia, sopra il diritto
e il contratto c’è l’attenzione alla sopravvivenza.
Il padrone non ha peli sulla lingua: voi vi nascondete
dietro la giustizia per mascherare la vostra malvagità.
Insisto spesso sulla gratuità di Dio.
Gratuità assoluta, sconcertante, che ne svela la bontà.
Eppure il Vangelo, a leggerlo bene, è tutto un intreccio
di incomprensioni rispetto a questa bontà.
Così è il prologo di Giovanni che ci ricorda che
le tenebre non hanno accolto la luce (Gv 1,11),
o la splendida parabola del figliol prodigo (Lc 15),
in cui i due fratelli, chi in un modo chi nell’altro,
non hanno ancora capito il volto del padre,
uno scambiandolo per un ostacolo alla sua sfrenata
libertà, l’altro nella ristrettezza di un dovere
sopportato a malincuore.
Così è oggi, nell’inquietante parabola dei servi
dell’ultima ora.
Che visione ho di Dio?
Davvero ho scoperto la sua bontà?
Questa bontà mi ha contagiato, sì da riversarsi sui fratelli?
Che paga ci aspettiamo alla fine della giornata lavorativa?
Che visione abbiamo del premio che il Signore ci riserva?
A volte penso che siamo solo capaci di,
proiettare su Dio le nostre piccolezze.
E la logica di Dio assomiglia terribilmente alla nostra
mediocre, rassicurante e grigiastra logica.
Convertirsi alla bontà
Gli operai della prima non hanno capito
con chi hanno a che fare.
Hanno ridotto la loro fede a fatica e sudore.
Peggio: guardano con sospetto gli altri,
quasi concorrenti dei loro privilegi.
Non è così per chi ha colto la luce del Vangelo.
Stupiti, abbagliati dalla bontà del padrone, gioiamo per
la grazia di poter lavorare nella vigna, gioiamo per la
possibilità che altri fratelli anche all’ultimo possano
accogliere la grazia che ci ha trasformati.
La bontà di Dio contagi la nostra vita, in modo da rendere
la nostra giornata lavorativa, sin d’ora, immagine di quella
gioia che il Signore riverserà nei nostri cuori forgiati
dalla fatica dell’amore.
Il nostro Dio, mite e umile di cuore, che vivrà quella
pagina dall’albero della croce accogliendo il buon ladrone,
ci faccia uscire dalle ristrettezze di una fede “sindacale”
per percepire, almeno un poco, quale braciere d’amore
e di bontà è il suo cuore.
Impariamo dal Signore, che è mite e umile di cuore ...


sabato 20 settembre 2014

Semente in abbondanza

Il seminatore uscì a seminare!
Gesù ci dice che bisogna seminare la sua Parola,
farla arrivare dappertutto senza guardare dove
seminiamo, senza chiederci se ne vale la pena;
l’importante è lanciare il messaggio.
Ecco, il seminatore uscì a seminare.
Il Signore vuole riflettere insieme con i suoi numerosi
ascoltatori sul modo, sullo stile di accogliere la Parola.
Quante volte, vi è stato detto che la Parola,
è spada che ci perfora il cuore, che ci schiude nuovi
orizzonti perché Parola diversa, ispirata, ricolma di Dio.
Eppure, che mistero!
Dio parla e l’uomo stenta ad ascoltare.
Credo che pochi di voi si ricordino della Parola
che abbiamo udito domenica scorsa.
Difficile da ricordare vero?
Eppure quella era la Parola che avrebbe dovuto
illuminare la nostra settimana!
Oggi il seminatore, che è Gesù, esce a seminare.
C’immaginiamo il gesto ampio e solenne del seminatore,
che non ha paura di gettare il seme con abbondanza,
fin sull’asfalto, nella speranza che buchi
la crosta dura del nostro cuore.
Così è Dio; esagera sempre.
Non gli importa la stretta logica del guadagno,
compie gesti insensati, getta con generosità la Parola,
sperando che faccia breccia nel
ghiaccio che avvolge la nostra vita.
Gesù analizza i risultati della semina.
Il primo risultato è disastroso;
il Signore semina sulla strada e il seme
non riesce neppure a sopravvivere,
perché arrivano gli uccelli e lo mangiano.
Il Signore stesso ne dà l’interpretazione;
gli uccelli sono il maligno che non vuole correre
il rischio che la Parola buchi l’asfalto della
nostra indifferenza e della nostra abitudine.
Il suo metodo? Semplice; il pregiudizio (sono
tutte cose inventate dai preti…),
l’arroganza (sono bastante a me stesso…),
l’indifferenza (ho altro a cui pensare…),
e così ci perdiamo la vita vera.
La seconda categoria di persone raggiunte dalla
Parola sono gli entusiasti un po’ incostanti.
Quanti ne ho incontrati!
Sono quelli che, raggiunti dalla Parola,
ne restano affascinati, soprattutto emotivamente.
Di solito si avvicinano alla fede attraverso
un’esperienza forte; un pellegrinaggio, un ritiro,
un gruppo, ma, appena fuori dall’ambiente,
cominciano pian piano a lasciarsi riassorbire
dalle preoccupazioni e, inesorabilmente,
cadono nella dimenticanza.
So per esperienza che, oggi, vivere la fede in
un ambiente ostile è certamente difficile,
come il seme che cade in mezzo alle pietre,
per questo è sempre più necessario vivere la fede insieme,
avere degli spazi, dei momenti per ristorarsi,
per riappropriarsi della propria fede.
La terza categoria è quella che,
pur cresciuta, è soffocata dalle spine.
E descrivere chi, dopo aver accolto la Parola, averla
maturata, averla accolta con gioia, incontra difficoltà,
sofferenze, aridità e ne è soffocato.
Difficoltà a livello umano; una malattia, un lutto,
che ci allontanano definitivamente da Dio.
O difficoltà di ordine spirituale; un’aridità prolungata,
una fatica interiore…!
Il seme cade su terra buona e produce frutto,
in maniera diversa.
In maniera diversa, rispettando la particolarità di ciascuno,
adattandosi alla vita interiore di ogni uomo.
Qual è il terreno buono?
Sono sempre rimasto un po’ perplesso
nel rispondere a questa domanda.
A me pare che, se qualcuno dicesse:
“Sì, mi sento un terreno buono che dà frutto”,
sarebbe un pochino presuntuoso!
Io credo che terreno buono è chi si è riconosciuto
nei precedenti tre terreni.
Credo che terreno è chi, con semplicità,
ha sentito la parabola e gli si è stretto il cuore
per paura di perdere la Parola.
La Parola feconda solo un cuore umile,
un cuore consapevole del proprio limite,
un cuore donato e spalancato al seme di Dio.
Solo un atteggiamento interiore di verità
è terreno fecondo per la Parola.
Lasciamo che la Parola, che, continuamente,
il seminatore getta a piene mani,
attecchisca nella nostra vita.
Ma; il seminatore riesce a buttare il suo seme?
Abbiamo sempre in casa un Vangelo,
magari in edizione di lusso.
Che giace tristemente impolverato.
Facciamola vivere questa Parola!
Diamole respiro!
Liberiamo la Parola di Dio; che contagi, inondi,
riempia, scuota, inquieti e consoli!
Lasciamo che, finalmente, il seminatore,
ci raggiunga e ci faccia crescere nella fede!
E allora, tanto per non dimenticare e per rinvigorire
quello che abbiamo trovato o scoperto, seminiamo
in abbondanza, ed il raccolto sarà fantastico.

Buona semina amici.

martedì 16 settembre 2014

Morte e Risurrezione

Giovinetto, dico a te, alzati.
Signore ti prego lasciami almeno soffrire in pace,
non hai rispetto della mia disperazione; non
illudermi, ne ho già prese anche troppe illusioni,
non me ne serve un’altra, ti prego, lasciami
piangere il mio dolore ti prego, grazie.
Ei giovinetto, guarda che dico proprio a te,
alzati, lascia il dolore a tua madre che non
vuol credere nel mio amore.
Siamo tutti stranieri rispetto a Dio, siamo
tutti cittadini, grazie a Dio.
I confini li creiamo noi, ci spartiamo le nazioni
come bottino di guerra, mettiamo sui piatti della
bilancia i rapporti di forza della politica e
dell’economia per acquisire potere, gettiamo fumo
negli occhi per nascondere le scomode verità
(sapete che i tre uomini più ricchi d’America possiede
più del prodotto interno lordo della somma dei
sei paesi più poveri del mondo?),
creiamo un clima di diffidenza verso il diverso,
lo straniero, scordando che tutti siamo stranieri
e che la terra è di Dio e di nessun altro.
La Parola, ancora, ci aiuta a riflettere sullo straniero,
con la straziante scena del funerale del figlio unico
della vedova di Nain.
Quì, la vedova vede il proprio figlio ammalarsi e morire.
Disperata, straziata dal dolore, vede le sue opere
di bene svanire nel nulla; l’uomo giusto
non viene risparmiato dal dolore…|
Ma il figlio della vedova rivive e lei è incredula;
ma non può essere, uno straniero che neanche conosco
mi ha aiutata, di più, mi ha ridato mio figlio.
È forte Gesù!
Straniero o no, credente o no, l’uomo sperimenta che
il dolore accomuna tutti, azzera le differenze,
avvicina all’essenziale.
Ci ricordassimo del dolore, quando ci sbraniamo in
ufficio, sul lavoro, nelle comunità e nelle parrocchie!
Facessimo memoria della sofferenza che tutti ci
accomuna e che tutti colpisce, quando siamo travolti
da delirio di onnipotenza!
Siamo tutti mendicanti di senso, bisognosi di una
carezza, di un abbraccio sincero.
Tutti cercatori, tutti accomunati dalla stessa
incontenibile necessità di felicità.
Ma, davanti al tragico mistero della morte le differenze
si annullano e tutto torna chiaro.
Se la morte e il dolore ci accomunano, la speranza
e la fede ci rendono membri di una nuova famiglia,
ci fanno portatori di una nuova logica.
Gesù ci svela il volto di un Dio che non ci evita il dolore,
ma che lo porta con sé, lo assume e lo redime.
Dio non ha voluto darci una risposta al dolore, ma
lo ha condiviso e redento, riempiendolo di luce.
No, non abbiamo facili soluzioni né scorciatoie.
Ai discepoli il dolore non viene evitato.
La Parola, oggi, ci indica il percorso della condivisione
del dolore, del portare insieme il peso della ricerca
come percorso di superamento del dolore,
come fece Maria, come lo possiamo fare anche noi,
aiutandoci e sostenendoci a vicenda.
Non scordiamoci quando siamo nel dolore,
che Gesù è venuto a condividerlo, a conoscere cosa
vuol dire soffrire, perciò anche il Signore sa quanto
si sta male nella sofferenza.
Perciò, sofferenti nel corpo e nell’anima come lo
sono sempre io, non disperiamoci,
Dio è con noi, soffre con noi.

(Messo il 16 Settembre 2014) 

domenica 14 settembre 2014

Esaltiamo la Croce? No grazie!
Dedicata a te Laura.
Avete ragione, scusate.
Davanti al dolore dell’innocente, davanti alla sofferenza
inattesa, davanti ai tanti volti di persone che hanno
avuto la vita stravolta dalla tragedia di una malattia
o di un lutto, le parole diventano fragili e l’annuncio
del Vangelo si fa zoppicante.
L’unica vera obiezione all’esistenza di un Dio buono,
così come Gesù è venuto a svelare, è il dolore
dell’innocente.
Molti dei dolori che viviamo hanno la loro origine
nell’uso sbagliato della nostra libertà o nella
fragilità della condizione umana.
Ma davanti ad un bambino che muore anche il
più saldo dei credenti vacilla, statene certi.
Al discepolo il dolore non è evitato, e non cercate
nella Bibbia una risposta chiara al mistero del
dolore (Ma davvero cerchiamo una risposta?
Noi vogliamo non soffrire, non delle risposte!).
Non troviamo risposte al dolore, troviamo un
Dio che prende su di sé il dolore del mondo.
E lo redime.
Per noi oggi, giunge l’occasione di una
seria riflessione sulla croce.
Dio non ama la sofferenza.
Prima, però, voglio chiarire una cosa.
La croce non è da esaltare, la sofferenza non è mai
gradita a Dio, Dio non gradisce il sacrificio fine a se stesso.
Lo dico per scongiurare la tragica inclinazione
all’autolesionismo tipica del cattolicesimo,
inclinazione che crogiuola il cristiano nel proprio
dolore pensando che questo lo avvicini a Dio,
inclinazione che produce molti danni.
La nostra è una religione che rischia di fermarsi al
venerdì santo, perché tutti abbiamo una sofferenza
da condividere e ci piace l’idea che anche
Dio abbia sofferto come noi.
Ma la nostra fede non resta ferma al calvario,
sale al sepolcro.
E lo trova vuoto, certo, e ne sono sicuro.
La felicità cristiana è una tristezza superata,
una croce abbandonata perché ormai inutile e
questa croce, ormai vuota, viene esaltata.
La croce non è il segno della sofferenza di Dio,
ma del suo amore. Grande Gesù.
La croce è epifania della serietà del suo
bene per ciascuno di noi.
Fino a questo punto ha voluto amarci, perché altro
è usare dolci e consolanti parole, altro appenderle a
tre chiodi, sospese fra il cielo e la terra.
Il paradosso dell’amore.
La croce è il paradosso finale di Dio, la sua ammissione
di sconfitta, la sua dichiarazione di arrendevolezza:
poiché ci ama lo possiamo crocifiggere.
Esaltare la croce significa esaltare l’amore,
esaltare la croce significa spalancare il
cuore all’adorazione e allo stupore.
Innalzato sulla croce, (Giovanni non usa mai
la parola “crocifisso” ma “osteso” cioé mostrato)
Gesù attira tutti a sé.
Davanti a Dio nudo, sfigurato, così irriconoscibile
da necessitare di una didascalia per riconoscerlo,
possiamo scegliere: cadere nella disperazione
o ai piedi della croce.
Dio–ormai–è evidente, abissalmente lontano
dalla caricatura che ne facciamo;
Egli è li, donato per sempre.
E al discepolo è chiesto di portare la sua croce.
Ho scoperto che, spesso, la croce sono gli altri
a procurarcela.
O noi stessi.
E noi ci svegliamo ogni mattina e la
carteggiamo e la pialliamo.
Evitiamo le sofferenze inutili, abbandoniamo
i dolori che scaturiscono da un’errata
visione del mondo.
Portare la propria croce significa portare l’amore
nella vita, fino ad esserne crocifissi.
La croce non è sinonimo di dolore ma di dono,
dono adulto, virile, non melenso né affettato.
Dio ci ha presi sul serio, rischiando di essere
uno dei tanti giustiziati della storia.
Ora è per noi l’occasione di posare lo sguardo sulla
misura dell’amore di un Dio che muore per amore,
senza eccessi, senza compatimenti,
libero di donarsi, osteso, amici, osteso.
Questo, ora, è il volto di Dio.
Cristi in croce.
Allora ti rispondo, amico, che mi hai telefonato,
urlando a Dio il tuo dolore: alla fine della tua acida
preghiera non troverai un muro di gomma, né un
volto indurito, ma–semplicemente–un Dio
che muore con te.
E potrai scegliere di bestemmiarlo e accusarlo
ancora per il tuo immenso dolore,
oppure restare stupito come quel ladro crocifisso
che non sapeva capacitarsi di tanta follia d’amore.
Tutto qui, la croce è l’unità di misura dell’amore di Dio.
Sì, amici, c’è di che celebrare,
c’è di che esaltare,
c’è di che esultare, per l’immenso amore che
Cristo ha riversato su di noi.
Buona Domenica a tutti voi sofferenti come Cristo, Fausto.