Il dolore di Dio.
(Matteo 21,33-43)
Eccoci, amici, pronti a partire per
Medjugorje,
perché proprio in quella pietraia?
Perché lì, attraverso Maria il Signore ha
piantato una
vigna, la vigna dell’amore, la vigna della
pace, la vigna
della gioia, la vigna della salvezza.
Sta a noi andare a raccogliere i frutti
buoni della vigna;
attenzione però, non facciamo come i
fittavoli cattivi,
che dopo averla avuta in affitto vogliono
impadronirsi
dei frutti.
Il dolore di Dio, si sente nel sofferto discorso
di Isaia
ripreso da Gesù!
Questo sconcertante racconto è una chiave
di lettura della
Storia e della vita.
Anche a me succede di entrare in crisi,
specialmente quando
faccio uno scontro frontale con la vita;
accade normalmente
quando incontro persone a cui voglio bene
o anche amici
incontrati nei pellegrinaggi; mi parlano
dei loro problemi,
descrivendo sofferenze degne di un
romanzo; persone
rimaste sole dall’infanzia, amori
falliti, bambini desiderati
e morti in tenera età, malattie gravi,
inganni e
malvagità capaci di rovinare una vita.
In quel momento avverto tutta l’impotenza,
la fragilità delle
parole usurate dal tempo e dal pietismo, e
sento forte la
domanda del senso; perché, Signore?
Dove trovare una risposta autentica, non
sbrigativa?
Davanti al grande dolore del mondo, al
non senso dei bambini
che saltano sulle mine antiuomo, agli
inquietanti venti di
guerra, ai rumori dei muscoli ostentati e
della violenza che
cresce, davanti al grande mistero che è (e
resta) in ciascuno
di noi, sento forte l’esigenza di trovare
un senso, di avere
delle certezze, una risposta, anche non
esplicita.
Certo; qualcuno evita di farsi domande,
fugge, semplicemente,
cercando di non rispondere mai.
O si rifugia in concetti e immagini solo
all’apparenza
consolanti ma che, in fondo, rivelano
tutto il limite del
nostro ragionamento, anche religioso.
Il dolore di Dio, questo mi sconcerta, mi
zittisce,
mi riempie e mi inquieta.
Gesù parla; sussurra quasi, lo sguardo
abbassato, la voce
rotta dall’emozione; che fare? Che farò?
La storia dell’umanità, ci svela Gesù, è
una storia d’amore
in crisi, di un innamorato passionale-Dio-e
di una sposa
tiepida e opportunista; l’umanità.
Leggete bene la parabola, per favore; quanta
dignità in
questo padrone che prepara con cura e
amore la vigna
da dare in affitto; leggete dell’arroganza
idiota di questi
fittavoli che pensano-uccidendo il figlio
del padrone—di
diventare eredi.
Immagine dell’umanità che non riconosce
il proprio
Creatore, il proprio limite, questa
tragica parabola è
la sintesi della storia fra Dio e
Israele, fra Dio e l’umanità.
L’uomo non riconosce il suo Creatore, si
sostituisce a Lui;
ecco il peccato fondamentale, la tragica
fragilità dell’uomo;
credere di essere autosufficiente, senza
dover rendere
conto, non riconoscere il proprio limite.
Così accade ancora oggi, all’umanità che
invece di
orgogliosamente realizzarsi nel dare
frutti, pensa a come
fregare il proprietario, che nega
l’evidenza, che si crede
onnipotente. Che fare?
Gesù, ora, stenta a parlare, pensa alle
sue parole, ai suoi
gesti, alla tanta tenerezza, alla profonda
e virile umanità
mostrata negli anni dell’annuncio.
Il problema principale, amici, è che
all’uomo un Dio
così proprio non importa, non lo vuole.
Preferiamo un Dio scostante e irritato,
forse, onnipotente
e freddo, da placare o convincere. Che
fare?
Questo Dio sconsiderato che rischia la
vita del figlio,
illudendosi di suscitare rispetto nell’uomo,
se non giustizia.
Invece no, anche questo gesto è
stravolto, incompreso.
Che fare?
Gesù non sa più cosa dire, ora, aspetta
una risposta dai
fittavoli che—ingenuamente—nella durezza
del loro
cuore non capiscono che proprio di loro
sta parlando.
E inveiscono; morte, punizione, vendetta,
maniere forti!
Già, replica il Rabbì, già…Così non sarà,
così non avverrà.
Solo l’ultima parte del consiglio si
avvererà; ad altri sarà
data la vigna, cioè a noi.
Il Rabbì, invece, non si vendicherà, ma
si lascerà
spazzare via piuttosto che usare
violenza.
A noi ora, amici.
Questa è la Storia, questa è-oggi come allora-la
morale della favola.
L’uomo si dimentica di essere vignaiolo,
di guardare
altrove, si scorda di vivere nella gratitudine
il dono
della vita, di scoprire il proprio
destino e la propria
chiamata ed è accecato semplicemente dalla
propria violenza e dalla propria
arroganza.
A noi—non più fittavoli ma coeredi—il
compito di
vivere nella gioia di coltivare la vigna di
Dio,
sopportando con pazienza evangelica la violenza
nel nostro e nell’altrui cuore,
opponendovi, come
esorta San Paolo: “Tutto quello che è
vero, nobile,
giusto, puro e amabile”.
Ecco amici perché dobbiamo andare a
Medjugorje,
per raccogliere i frutti e non essere
come i cattivi
vignaioli, ma dei buoni fratelli in
Cristo Gesù
e condividere con i fratelli che
incontriamo, tutto
quanto di bello e di buono abbiamo
raccolto.
Buon raccolto e un proficuo
pellegrinaggio a tutti da Fausto.
Nessun commento:
Posta un commento