Per la sua festa ho voluto scrivere una lettera a Tommaso,
perchè anche lui come me, non crede se non ci mette il
naso, siamo proprio una bella coppia.
CARO TOMMASO.
Fa strano scriverti una lettera, ma
ho deciso, dopo tanti anni,
di schierarmi formalmente e
solennemente dalla tua parte.
Mi spiego meglio.
Ogni anno, dopo la gioia della festa
di Pasqua,
puntualmente ti ritroviamo col
Vangelo che ti riguarda.
Giovanni ci dice che il fatto, o
meglio il fattaccio,
è accaduto otto giorni dopo
l’apparizione di Gesù a
porte chiuse nel Cenacolo, la sera di
Pasqua.
Ora; sono stufo di vederti descritto
come un incredulo.
Su di te abbiamo addirittura composto
un proverbio:
“Tommaso, che non ci crede
se non ci mette il naso” e,
così sei arrivato fino a noi con la
falsa nomina di incredulo.
È il nostro consueto modo di leggere
il Vangelo,
col cervello in stand-by,
ascoltando come se fosse una pia ed
edificante favoletta,
senza la voglia di approfondire ciò
che dovrebbe nutrire la
nostra vita e la nostra fede.
Eppure, Tommaso, leggendo bene il
racconto di Giovanni,
si capisce subito che tu al Rabbì ci
avevi creduto,
fin troppo, più degli altri.
D’altronde, le uniche due volte in
cui si parla di te
nel Vangelo, hai dimostrato fegato ed
entusiasmo.
La prima volta Gesù decise di salire
a Gerusalemme,
ignorando la pessima aria che tirava.
Il rischio era reale;
Gesù era malvisto dal Sinedrio che
già
complottava per farlo arrestare;
malgrado questo, il Maestro decise di
rischiare.
Tu, Tommaso, dicesti:
“Andiamo a morire con Lui!” (Giovanni 11,16).
Poco dopo, quando Gesù parlò del suo
destino,
e chiese di essere seguito, tu gli
chiedesti:
“Signore, non sappiamo dove
vai e
come possiamo conoscere la
via?”,
alche, Gesù ti rispose:
“Io sono la via, la verità
e la vita”
(Giovanni 14,5-6).
Poi, quelle maledette quarantotto
ore.
Tutti voi, Tommaso, eravate impreparati,
increduli o distratti.
La croce vi era piombata addosso come
un treno in corsa,
vi aveva spezzato l’anima, aveva
travolto tutto.
Non foste capaci di fare il benché
minimo gesto,
nessuna reazione, solo la paura e il
dolore,
la disperazione senza fine.
Incredulo tu? Andiamo!
Piuttosto credulone, con l’entusiasmo
che ti
contraddistingueva tra i Dodici.
Sai, Tommaso, mi sono riconosciuto
molte volte in te;
ti ho visto nel volto di molti
fratelli scoraggiati e delusi,
dopo aver dato l’anima per un sogno,
un progetto.
E ho capito che più voli in alto e più-cadendo-ti
fai del male.
La croce, per te inattesa, aveva
inchiodato il tuo
Maestro e la tua vita, messo fine al
tuo sogno.
E ti vedo—sbalordito, a bocca aperta
con gli occhi
sbarrati—che ascolti i tuoi compagni.
Le tue ferite sanguinano copiosamente
e
questi—gioiosi—ti raccontano di
averlo visto vivo, risorto.
Non sai credere a quello che dicono,
e soprattutto, di chi te lo dice.
Giovanni, che c’era, ha scritto solo
la prima parte di ciò
che hai detto, la frase durissima
del:
“Non crederò” è
stato delicato Giovanni;
e non ha riportato le tue altri
frasi, dette con la
voce rotta dalla rabbia e dalla
voglia di piangere.
Ma io immagino quello che hai detto,
perché da uno come te pieno di amore
non potevano
che essere: “Tu
Pietro? Tu Andrea?....e tu Giacomo?
Voi mi dite che Lui è vivo?
Siamo scappati tutti, come conigli;
siamo stati deboli, non abbiamo
creduto!
Eppure, Lui ce l’aveva detto, ci
aveva avvisati.
Lo sapevamo che poteva finire così,
e non gli siamo stati vicini,
non ne siamo stati capaci.
Ora, proprio voi, venite a dirmi di
averlo visto, vivo?
No, non è possibile…come faccio a credervi?”.
Sai, Tommaso; hai ragione!
Incontro spesso persone come te,
feriti dalla pessima testimonianza di
noi discepoli,
scandalizzati dal baratro che
mettiamo tra
la nostra fede e la nostra vita,
increduli a causa della nostra
piccolezza.
Noi, discepoli del Maestro,
che invece di essere trasparenza del
Risorto,
ci nascondiamo dietro ad un dito,
dalla paura di farci riconoscere,
piuttosto che radiosi dalla luce che
ci ha avvolti e cambiati.
Quanti ne conosco come te, Tommaso!
Brava gente, ma turbati dal nostro
poco entusiasmo.
Ma—e questo è stupefacente—Giovanni
ci dice
che otto giorni dopo eri ancora con
loro.
Non li hai mollati come a volte vedo
fare,
non ti sei sentito superiore o
migliore.
Hai voluto condividere la tua
amarezza con loro, non hai
pensato di fare marcia indietro
vedendo che ormai tutto
era compromesso e magari preso anche
in giro dai tuoi amici.
E hai fatto benissimo; apposta per te
è venuto il Maestro;
vedi come ti ama?
Lo vedi, ora; è lì, apposta per te.
Ti mostra le sue piaghe, il costato.
Poi sorride e ti parla.
Lo so bene, Tommaso,
e scusa se facciamo dei commenti
discutibili;
quella frase bellissima non è un
rimprovero,
Gesù non ti sta rinfacciando la tua
incredulità, macchè.
Le sue parole sono un immenso gesto
d’amore.
Mostrando il palmo delle mani
trafitte, ti sussurra:
“Tommaso, so che hai
sofferto tanto.
Guarda; anch’io ho
sofferto…!”.
E ti sei arreso, finalmente.
Hai lasciato la diga del pianto
rompere gli argini,
ti sei lasciato travolgere dall’amore
e dalla fede,
ti sei buttato in ginocchio e tu,
primo tra i Dodici,
hai osato dire ciò che nessuno,
prima aveva osato neppure pensare: “Gesù è Dio!”.
Senti, Tommaso, io ti voglio un sacco
di bene e
ti ringrazio per la tua fede sincera.
Non credo sia un caso il fatto che il
nostro
comune amico Giovanni ti abbia
soprannominato
“Didimo”, cioè
gemello; davvero mi assomigli.
Voglio affidarti, caro mio gemello,
tutti quelli che--come te—non si sono
ancora arresi
al Signore, tutti quelli insomma,
bastonati come te.
E anche gli scandalizzati da noi
cristiani;
che guardino a Cristo,
piuttosto che ai suoi fragili
discepoli.
Hai abbandonato il tuo dolore,
restando con la comunità,
senza scandalizzarti dei tuoi limiti
e
di quelli dei tuoi fratelli di
ventura.
Hai superato il dolore quando,
lo hai saputo condiviso dal Maestro,
quando lo hai sentito dietro alle
spalle del tuo Dio.
Ciao, uomo dalla grande
fede sincera.
Tommaso ha scoperto che la gioia
cristiana è
riconoscere nel dolore assunto da Dio
un gesto d’amore e di condivisione.
Fidandosi della comunità,
Tommaso incontrerà il suo Dio
e Signore.
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