VIAGGIAMO SULLE ALI DELLA MISERICORDIA

Il nostro intento e' quello di condividere l'amore del Signore e la maternità di Maria che hanno per tutti noi anche attraverso l'organizzazione di pellegrinaggi al santuario dell'Amore Misericordioso e da alcuni anni anche a Medjugorje.



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domenica 28 marzo 2010

Entriamo anche noi assieme a Gesù nel Cenacolo per l'ultima Cena

Tra qualche giorno la Chiesa ci ricorda il mistero
dell'ultima Cena, la Cena Pasquale dove Gesù
istituì l'Eucaristia.
E allora entriamo con il nostro cuore in
quella prima Chiesa, la culla di tutte le Chiese,
uniamoci ai dodici, nella speranza di non
sentirci dichiarati traditori.
Gesù mandò alcuni discepoli in città e disse loro:
“Appena entrate in città, vi verrà incontro un
uomo che porta una brocca d’acqua; seguitelo………
Egli vi mostrerà una sala al piano superiore,
grande e addobbata; là preparerete”.
Essi andarono e trovarono tutto come
aveva loro detto e prepararono la Pasqua.
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In quella sala, Gesù desiderò celebrare la sua ultima
Pasqua ebraica e la sua prima Pasqua cristiana.
Dunque il Cenacolo situato sulla collina di Sion,
non è una sala qualsiasi ma una chiesa,
la chiesa fondata da Gesù,
la chiesa di Gesù e nostra prima chiesa cristiana.
Dopo quel primo giovedì Santo in quella sala—
che fu risparmiata anche dalla distruzione di Gerusalemme—
il culto cristiano si è svolto ininterrottamente per anni e anni;
per anni e anni i pellegrini sono entrati in quella sala
per venerarla come Madre di tutte le chiese,
ma anche come culla della chiesa nascente,
conchiglia dello Spirito Santo,
primo Tabernacolo e Santuario della devozione cristiana.
Allora ci domandiamo; quali erano i sentimenti di Gesù,
quando varcò la soglia di quel luogo?

Io i sentimenti di Gesù ho cercato di intuirli attraverso il Vangelo.

Il Vangelo ci narra che quando era a Gerusalemme,
il Signore insegnava ogni giorno nel tempio;
e di notte usciva per pregare e stava sul monte degli Ulivi;
ma già fin dal mattino tutto il popolo lo cercava per ascoltarlo;
dovunque si spostava le folle lo seguivano,
perché questo grande Rabbì compiva grandi prodigi,
misteri gratificanti ed esaltanti.
Quando però Gesù ha parlato di misteri dolorosi,
di misteri scandalosi, quando ha parlato di croce, di morte,
di umiliazione, allora le folle gli hanno voltato le spalle:
“Quelle parole dice il Vangelo, chi poteva sostenerle?”.
Questo, è il prologo!
Allora con quale animo quella sera Gesù sarà
entrato in quella sala sapendo che;
“da Dio era venuto e a Dio ritornava?”.
Io credo che Gesù, quel giovedì Santo,
sia entrato nel Cenacolo con una piccola speranza;
la speranza che almeno quel residuo,
di dodici uomini accogliesse il mistero di quell’ultima Cena;
che non si scandalizzassero; che non lo abbandonassero;
che resistessero alla prova.
Gesù doveva infatti provarli,
doveva sapere se erano disposti a credere in un maestro,
Figlio di Dio, che lava i piedi ai discepoli e,
riassume in quel gesto tutta la follia delle Beatitudini;
doveva sapere se erano disposti a credere nel Dio dell’Eucaristia e,
cioè in un Dio che vuole soffrire e morire per riscattarci;
che vuole alimentarci non solo nello spirito ma anche nel corpo,
facendosi pane per tutti, per ogni tempo;
Gesù doveva sapere se erano disposti a credere in un Dio
che affida la sua nuova ed eterna alleanza al sacerdozio,
di uomini impreparati e peccatori.
Giuda non superò quella prova e fuggì…
Gli altri undici restarono, nonostante lo sbigottimento;
restarono per; “aver parte” con Cristo.
“Anche se tutti si scandalizzassero di te,
io non mi scandalizzerò mai”,
rispose Pietro a Gesù quella sera.
Pietro aveva queste repentine folgorazioni e capiva
che il requisito fondamentale per aver parte con
Cristo era quello di non scandalizzarsi di lui;
e quando Gesù gli propose lo scandalo della lavanda
dei piedi come condizione per essere con lui, esclamò:
“Non solo i piedi ma anche le mani e il capo!”
Pietro intuiva che il discepolo di Cristo deve
anzitutto piegarsi al maestro, deve esercitare la fede,
deve insomma avere lo spirito pronto anche se la carne è debole.
La carne di Pietro era debole ma il suo spirito poteva
pronunciare gli attestati di fede più sconvolgenti:
“Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente”.
E ora: “Io non mi scandalizzerò mai!”
Questa frase di Pietro può essere presa per
chiave d’ ingresso al Cenacolo;
perché nel Cenacolo Cristo ci attende,
non per chiederci se la nostra carne è debole ma,
per chiederci se il nostro spirito è pronto.
Da quel giovedì Santo il Signore,
continua a dare appuntamento nel Cenacolo a tutti i suoi,
a tutti noi, per verificare la nostra fede;
ognuno di noi viene provato.
Perciò io dico;
se non sappiamo accettare un Dio che sconvolge;
se non sappiamo benedire le sue vie anche
quando non sono le nostre vie;
se non sappiamo capire che le sue ragioni
non sono le nostre ragioni;
se non sappiamo confidare in questo Dio che
tollera tutto ciò che a noi sembra intollerabile;
cioè l’intollerabile dolore nel mondo,
l’intollerabile ingiustizia, l’intollerabile corruzione,
l’intollerabile sfortuna dei buoni e la fortuna dei cattivi,
l’intollerabile sofferenza e la morte dei più piccoli;
se non sappiamo credere che il mistero di Dio è sempre
un mistero d’Amore finalizzato all’Amore senza fine,
allora vi dico non entriamo nel Cenacolo;
fuggiamo come fuggì Giuda, perché non potremo,
“aver parte”, con il Dio del Cenacolo;
nel Cenacolo si entra con la fede a prova di mistero o
non si entra; in quella chiesa ci aspettano i misteri
vertiginosi della nostra fede, misteri inviolabili.
Se la nostra fede resiste anche quando la nostra
mentalità è calpestata; se la nostra fede resiste
anche quando la nostra carne è ferita;
se la nostra fede resiste anche quando Dio ci chiede troppo,
allora e soltanto allora possiamo dire che la nostra fede è Fede,
e possiamo sperare di, “aver parte”, con il Signore.
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Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto
nelle mani e, che era venuto da Dio e a Dio ritornava,
si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio,
se lo cinse attorno alla vita;
poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a
lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con
l’asciugatoio di cui si era cinto;
venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse:
“Signore, Tu lavi i piedi a me?” Rispose Gesù:
“Quello che io faccio, tu ora non lo capisci,
ma lo capirai dopo”.
Gli disse Simon Pietro: “Non mi laverai mai i piedi!”
Gli rispose Gesù: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”.
Gli disse Simon Pietro:
“Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!”
(Giovanni 13. 3-9)
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Questo brano è paragonabile ad un cielo stellato,
più noi fissiamo le stelle più ne vediamo,
è una visione ottica e questo dovrebbe accadere
nel nostro animo, più noi fissiamo il nostro pensiero a
quello che è accaduto nel Cenacolo il giovedì Santo e
più scopriamo qualche nuova luce, qualche bagliore nuovo,
è come se nel Cenacolo divampasse un incendio di luci.
Quei grandi eventi si aprono con il gesto solenne di Gesù,
che all’inizio della cena depone il mantello,
versa dell’acqua in un catino e comincia a lavare i piedi ai discepoli.
Non so se sapete che a quell’epoca la legge diceva che:
“Non ti lascerai mai lavare i piedi,
non permetterai mai a qualcuno di lavarti i piedi”.
Al tempo di Gesù, neppure gli schiavi erano obbligati a
compiere questo servizio umiliante;
perciò ogni israelita osservante e tanto più un Rabbì
avrebbe rispettato questa tradizione.
Invece il Rabbì di Nazaret, il Maestro dei dodici,
la infrange fino al punto di compiere lui stesso questo servizio.
“Quante luci risplendono in quel gesto così significativo!”
Il primo significato che si potrebbe cogliere,
credo sia questo; nessuno, né discepolo, né maestro, né schiavo,
nessuno deve sentirsi umiliato nel compiere un atto di carità.
Se un nostro fratello ha i piedi stanchi, polverosi,
bisognosi del nostro sollievo,
con letizia dobbiamo chinarci e servirlo;
nessuna legge o consuetudine umana può esentarci dalla carità.
Agli occhi di Dio non sarà mai umiliante un gesto
suggerito dalla legge del cuore,
la legge divina è sempre dalla parte del cuore umano;
lo sapeva San Francesco che baciava i lebbrosi
emarginati dalla società, lo sapeva Madre Teresa
che raccoglieva gli impuri, i dimenticati,
i moribondi più ripugnanti e lo sanno i;
“giusti” di ogni tempo che hanno stimolato i popoli a
mettere più cuore nelle loro leggi,
che hanno combattuto contro le leggi ingiuste,
le leggi schiaviste, razziste, abortiste, le leggi dell’egoismo;
lo sanno i Santi che hanno inventato le scuole per i poveri,
gli ospedali per gli ammalati, gli ospizi per i senza tetto,
le case per gli orfani, anche quando questa carità
non era nelle leggi degli uomini.
Il gesto di Gesù ci insegna che la carità è una legge
più grande di ogni legge umana e che il cristiano deve
obbedire alla legge della coscienza prima di ogni altra legge.
Subito dopo questo significato,
direi che ne affiora un altro non meno importante.
Con la lavanda dei piedi Gesù,
ci insegna che la carità va fatta in proprio,
che non possiamo dispensarcene;
nella carità, il servo sia come il padrone,
il Rabbì come il discepolo, il ricco come il povero,
il giovane come il vecchio.
La carità è la madre degli uomini e non c’è
prestigio personale che esoneri un figlio
dall’obbedire a questa madre.
E andiamo allora ancora più in profondità;
Gesù si china sui piedi dei discepoli;
i piedi non sono il volto,
non sono una parte attraente dell’uomo;
i piedi di Giovanni non avevano la
gentilezza del suo volto;
i piedi di Filippo non attraevano come i suoi
bei lineamenti greci;
i piedi di Pietro non conquistavano
come i suoi slanci generosi.
I piedi sono una miseria al confronto;
eppure Gesù si inginocchia davanti a tanta
miseria per insegnarci a servire i fratelli senza
guardare al loro volto, senza guardare a simpatie,
a preferenze, ad attrattive,
senza cercare alcuna gratificazione.
Ma c’è un altra lezione da imparare che è quella
di inginocchiarsi; saper imparare a inginocchiarsi
nel servizio ai fratelli ma, a sua volta,
ogni fratello deve sapere accettare la carità altrui
con gratitudine e semplicità, come Gesù insegnò a
Pietro che non voleva farsi lavare i piedi.
Può darsi che un giorno tocchi a noi ad aver bisogno
che ci lavino i piedi, il capo e le mani,
o che ci imbocchino, o che ci vestano.
Gesù ci insegna che per, “aver parte”,
con Lui bisogna saper fare la carità ma anche
saper riceverla; la carità va fatta con dolcezza e
umiltà ma va anche ricevuta con dolcezza e umiltà.
Quanta luce emana quel gesto di Gesù!
Se l’ultima Cena è la prima Messa nel mondo,
allora la lavanda dei piedi è la prima omelia al mondo.
Ascoltiamola con commozione e raccoglimento;
e facciamo tesoro della sua conclusione,
cioè delle parole che disse Gesù:
“Anche voi, fate come io ho fatto a voi!”
È un invito che non è limitato alla lavanda dei piedi,
ma vuole essere un invito molto più ampio,
vuol dire; in ogni cosa comportiamoci come si
comporterebbe Cristo;
impariamo ad essere liberi da tutto e schiavi solo di Cristo.
In ogni cosa, chiediamoci cosa farebbe Cristo e facciamolo.
Imitiamo Cristo!
È questa la regola d’oro della carità.
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Quando ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti,
sedette di nuovo e disse loro:
“Sapete ciò che vi ho fatto?” (Giovanni 13.12)
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Ogni volta che abbiamo meditato la lavanda dei piedi,
l’abbiamo sempre meditata come una lezione sulla carità,
giustamente, eppure sembra che non ne
abbiamo ancora appreso tutti i significati;
sembra che il Signore continui a rivolgere
anche a noi la domanda che rivolse agli apostoli:
“Capite che cosa vi ho fatto?”.
Prima di rispondergli, proviamo a riflettere e a chiederci;
si può trarre un insegnamento più profondo in
quel gesto che appare soltanto un
emblema della carità verso il prossimo?
Cos’altro dobbiamo capire della carità?
Per tentare di capire, cominciamo col tornare
indietro a una lavanda di piedi e a una cena
precedente, dove sembra che Gesù sminuisca
il valore delle opere buone verso il prossimo.
È la cena di Betania!
Gesù vi prende parte insieme a Giuda e ad altri discepoli.
Durante il convito interviene Maria,
che prese una libbra di essenza di nardo da un vaso prezioso,
unge il capo e i piedi di Gesù.
Tutta la casa si riempie della fragranza di quel profumo.
Giuda però osa esprimere il suo disappunto;
e lo fa con un argomento che avrebbe dovuto
chiudere la bocca al suo Rabbì:
“Non era meglio che si vendesse quell’unguento
per darne il ricavato ai poveri?”
Ma ancora una volta Gesù,
rovescia la situazione e fa a pezzi le certezze di chi lo circonda:
“Lasciatela stare, dice,
essa ha compiuto un’opera buona verso di me;
i poveri li avete sempre con voi, ma non sempre avete me;
dovunque sarà annunziato il Vangelo in tutto il mondo,
si narrerà ciò che essa ha fatto”.
Poi, Gesù sottolinea un altro punto importante:
“Ciò che poteva fare, ella lo ha fatto,
ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura”.
È questo il punto che volevo fare affiorare.
A questa mensa Gesù insegna che le occasioni
per offrire a Dio un atto d’amore non vanno perdute;
e che un atto d’amore dedicato a lui ci conduce
misteriosamente a compiere atti d’amore per l’uomo;
così come il nardo della Maddalena,
dedicato al vero Dio, diventa atto pietoso
anche per il vero uomo; per la sepoltura del suo corpo.
La mensa di Betania è la lezione complementare
alla lezione del Cenacolo; perché la vera carità, la carità piena,
la carità santa di cui ci parla San Paolo,
si esercita soltanto quando si esercita anche la carità verso Dio.
Se non spendiamo il profumo della nostra anima per Cristo,
se non ci inginocchiamo ai suoi piedi, se non guardiamo a Lui,
la nostra carità rischia di essere fragile e non matura,
di essere superficiale,
(tanto per mettere la coscienza tranquilla)
non integra, affannosa e non gioiosa, antiquata e non profetica.
Il Signore è morto in Croce non perché il cristiano
semini nella sua vita minuscoli miracoli di carità quotidiana,
ma perché tutta la sua vita sia un intero miracolo di carità.
E questo autentico miracolo si compie soltanto con Lui.
La lezione che Gesù dette a Giuda in Betania e
la lezione che dette agli Apostoli nel Cenacolo
sono un’unica lezione, sono un unico modello per il cristiano;
come i due comandamenti nuovi del
Signore sono un unico comandamento:
“Ama Dio con tutto te stesso, con tutte le tue forze,
e ama il prossimo tuo come te stesso”.
Un cristianesimo che si riduce alla pratica di una certa
solidarietà con il prossimo, non ha più niente a che
fare con il cristianesimo evangelico;
la carità cristiana è una forma di amore che rivolgiamo a Dio.
L’amore per Dio sorpassa i limiti di una
carità puramente umana e carnale,
perché ci fa amare il prossimo nella sua
dimensione e vocazione eterna.
Si tratta dunque di conservare e di aumentare in noi
quel senso di Dio che deve essere il fondamento di
ogni nostro rapporto con gli altri.
Nella contemplazione di Dio,
si svegliano nell’uomo i sentimenti profondi della
donazione e della lode, cioè i sentimenti che fanno
parte della dimensione integrale dell’uomo;
per cui un uomo che non ha questo senso di Dio,
è un uomo a cui manca qualcosa, manca il vaso dell’amore,
manca la totalità dell’amore autentico.
In certe epoche del cristianesimo si è
data poca importanza all’amore del prossimo.
Ma l’errore di oggi, reale e grande, è inverso.
Oggi si è tentati di credere che il cristianesimo
si esprima essenzialmente con l’amore del prossimo,
e facciamo dell’amore di Dio qualcosa di secondario.
Questo è radicalmente contrario all’esempio di Cristo;
tutta la vita di Cristo fu un duplice rapporto,
uno con i fratelli, l’altro più profondo e intimo con il Padre.
Così deve essere anche per noi, l’equilibrio della nostra
vita cristiana dipende,
dalla misura in cui siamo capaci di unire queste due
dimensioni, l’amore a Dio e l’amore al prossimo.
Allora alla domanda che Gesù
rivolge a tutti noi nel suo Santuario è:
“Capite cosa vi ho fatto?”
E noi rispondiamo umilmente:
“Signore, non sappiamo se abbiamo davvero capito,
ma Tu, aiutaci a capire”.

venerdì 26 marzo 2010

Gesù entra Osannato a Gerusalemme

È la sua ora e si dirige sicuro a Gerusalemme,
senza paura.
Ma a Gerusalemme vuole entrare in umiltà,
vuole attirare gli sguardi con amore,
ed entra seduta su un mulo.
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Essi condussero l’asinello da Gesù e,
vi gettarono sopra i loro mantelli,
ed Egli vi montò sopra.
E molti stendevano i propri
mantelli sulla strada e altri delle
foglie di palma che avevano tagliato nei campi.
E tutti gridavano: “Osanna osanna”.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide!
Osanna nel più alto dei cieli! (Marco 11,7-11,10).
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C’è sempre voglia di far festa,
specialmente nei giovani,
ogni piccola ricorrenza è una scusa per fare festa.
È una bella cosa,
perché vuol dire che dentro di noi c’è
ancora voglia sana di divertimento,
almeno speriamo,
l’importante che sia veramente sincera!
E quel giorno tutti correvano,
avanti e indietro per le piccole vie di Gerusalemme,
inneggiando al figlio di Davide e, tutti gridavano:
“Sta arrivando Gesù!”.
Osanna, osanna.
Perché tutto questo gridare,
era passato tante volte per i vicoli,
quando saliva al tempio per insegnare,
tante volte, qualcuno di loro era riuscito ad avvicinarsi,
il loro amico cieco cha andavano sempre a consolare,
l’hanno visto con gli occhi spalancati e con la gioia nel
cuore dopo una guarigione impossibile.
Avevano seguito magari un po’ defilati,
le dispute con i sacerdoti del tempio e,
avevano goduto che Gesù li avesse messi tutti a tacere,
con le sue risposte che tante volte però non capivano.
Poi per un po’ era sparito, non si faceva più vedere,
correvano voci che volevano fargli del male,
che era meglio che stesse sotto traccia.
Avevano sbagliato opinione,
Gesù non si faceva intimorire.
Ma oggi la notizia è esplosa in tutta la città,
eccolo là, in barba a chi lo credeva un pauroso,
non è come noi,
che abbiamo paura e vergogna,
a professare la nostra fede cristiana.
Lui è tornato, a questa Pasqua non vuole mancare,
è la sua Pasqua, ed è qui ancora con noi e,
sappiamo che noi non ci caccia mai,
anzi, fa zittire gli altri per ascoltarci,
per dirci quello che gli sta a cuore e che dà gioia;
anche se poi facciamo presto a girargli le spalle;
“perché dopo qualche giorno,
saremo là in mezzo alla folla a gridare, crocifiggilo!”.
Ma Lui non guarda a queste cose,
le guarderà al momento opportuno,
ora invece guarda a quel poco di buono che
abbiamo nella nostra anima e ci invita a far festa,
a gioire della sua presenza;
e allora accogliamolo questo invito.
Lo abbiamo spesso ascoltato,
lo abbiamo visto carico di malati e di sofferenti,
che Lui toccava uno ad uno,
ma oggi lo vogliamo solo per noi,
per fare festa con lui.
Vogliamo Gesù,
che Tu condivida con noi questa spinta
interiore a guardare alla vita con gioia,
ad esprimere il massimo di allegria che portiamo in cuore.
Siamo contenti che Tu sia tornato tra noi.
Lascia per oggi le tue pur belle parole,
sii Tu la Parola della nostra gioia,
perché Tu sei con noi.
Parleremo dopo, adesso lasciaci cantare,
lascia che nei nostri tuguri,
dove per troppo tempo siamo stati rintanati,
risuoni il canto dell’Osanna,
della nostra contentezza per averti in mezzo a noi.
E Gesù contento passerà su una mula,
per farci vedere che si può essere Re anche nell’umiltà,
ci fa vedere che lui è uno di noi,
in mezzo a noi con il suo amore.
E Lui ci dice; è giusto che cantiate,
è bello che diate lode,
è importante che facciate festa.
Occorre colorare la vita di serenità, di pienezza.
E ci dice, se non cantate voi,
si mettono a cantare le pietre.
Questa nostra civiltà è troppo impelagata nei commerci,
è troppo piena di raggiri,
è colma di inganni e di interessi incrociati,
di trame politiche e di sopraffazione.
Occorre la venuta di Gesù per svegliarla,
per dare un sussulto di speranza a tutti noi,
che ci teniamo curvi sotto il peso di una attesa senza fine,
dove la nostra gioia si era cambiata solo in pianto.
Ora il lamento deve cambiarsi in gioia.
Nella nostra vita abbiamo spesso
necessità di far esplodere la gioia,
perché senza gioia non c’è festa, senza gioia non si ama,
senza gioia non c’è vita.
E allora Gesù, vieni in mezzo a noi,
fa esplodere la nostra gioia, riempi la nostra festa,
facci sognare una vita nuova.
Sappiamo che non potrà sempre essere così,
ma abbiamo bisogno ogni tanto di sentirti vicino,
ad alimentare la nostra gioia,
perciò vieni e spalancare una finestra,
di eternità con il tuo Amore Misericordioso.

domenica 21 marzo 2010

COL CUORE A NAZARET

Giovedì la Chiesa ricorda l'Annuncio di Dio a Maria,
che nel suo grembo custodirà il Figlio suo e,
sarà il Salvatore del Mondo.
L'Annuncio ha voluto fosse fatto dall'Angelo Gabriele,
in umiltà e nel nascondimento, fuori dai frastuoni del mondo.
Pensiamo di entrare a Nazareth nel mistero dell’incarnazione.
Perché proprio Nazareth?
Perché era un paese di povera gente ignorante.
Gente in prevalenza pastori, dichiarati a quei tempi dei poco di buono;
e Gesù nella sua umiltà volle venire su questa terra proprio fra gli ultimi.
Pensiamo di respirare quell’aria particolare in un giorno di primavera,
dove con un fremito d’ali, l’Angelo Gabriele entrò in quella povera casa,
ad annunciare a Maria che in Lei il Verbo si sarebbe fatto carne.
Quante volte abbiamo ascoltato questo brano del Vangelo!
Credo che ad ognuno di noi verrebbe voglia,
di rivivere quei momenti misteriosi,
in cui con semplicità e umiltà l’Angelo apparve a quella fanciulla di Nazareth:
“Ave Maria, piena di grazia”.
Allora da questo momento solenne,
con la nostra mente inizieremo a seguire la vita di Gesù, i passi di Gesù,
col bruciante desiderio di resuscitare in noi la sua presenza,
la sua Parola, il suo Amore.
Questo cammino deve essere soprattutto un cammino interiore,
un cammino dell’anima;
e quello che veramente conta è la disposizione dello spirito,
e l’apertura del cuore.
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L’Angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea,
chiamata Nazareth, a una vergine,
promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe.
La vergine si chiamava Maria.Entrando da lei disse:
“Ti saluto o piena di grazia, il Signore è con te”. (Luca 1.26-28)
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Al tempo dell’Annunciazione,
Nazareth era un villaggio nascosto fra i monti, solitario,
emarginato dalle grandi vie di comunicazione, quasi sconosciuto.
Solo Dio, che si compiace di;
“elevare le piccole cose e di umiliare le grandi”,
riguardò a questo; “fiore di Galilea”, per cercarvi; “la casa di Maria”,
dove si è compiuto il mistero dell’Incarnazione.
Da qui il Messia, ha osato irrompere nella storia umana e,
spezzarla in due.
Ma non è soltanto il tempo che nasce qui.
Qui nasce la preghiera che è cara a tutti,
la preghiera che abbiamo cominciato a balbettare da bambini,
la prima preghiera che ci hanno insegnato:
“Ave Maria piena di grazia”.
L’Ave Maria è stata pronunciata qui per la prima volta.
È la prima preghiera del tempo cristiano.
È la nostra prima preghiera.
Ed è anche l’ultima preghiera quella che i sacerdoti,
recitano agli orecchi dei moribondi.
Ed è la preghiera che anche noi chiediamo spesso;
quante volte a qualcuno abbiamo detto:
“Dì un’Ave Maria per me”.
L’Ave Maria è diventata il simbolo della preghiera.
Il saluto dell’Angelo a quella fanciulla è diventata,
la prima e l’ultima preghiera di ogni credente in Cristo.
Allora possiamo dire che la nostra fede si accende a Nazareth.
E quando noi pensiamo al mistero dell’Annunciazione,
sentiamo che la fede e il tempo,
si incontrano su questo avvenimento.
Si può dire che gli uomini, le circostanze, la storia,
acquistano il loro significato direttamente da qui.
Gli uomini dell’Antico Testamento, gli uomini dell’antica alleanza,
hanno atteso con tanta speranza questo momento,
che era stato promesso da Dio: “Verrà una donna”!
E quando questa donna è venuta, inconsapevole dell’attesa dei secoli,
la risposta alla speranza di Dio e alla speranza degli uomini è stata:
“Ave Maria”, le dice l’Angelo; e lei rispose:
“Ecce Ancilla Domini”, che vuol dire:
“Ecco l’Ancella del Signore, sia fatto di me secondo la tua parola”.
Mettiamola sempre quest’Ave!
L’ha pronunciata il messaggero di Dio, è il messaggio di Dio,
è la confessione dei sentimenti di Dio per questa fanciulla di Galilea.
Ti salutiamo, o Vergine piena di grazia,
che hai suscitato la compiacenza di
Dio così pienamente, che Dio si è stabilito in Te, e con Te.
Ti salutiamo, opera di Dio, esclusivamente sua.
Ti salutiamo, Ancella di Dio, ammessa alla dolce intimità di Dio,
intima in Lui.
Ti salutiamo, benedetta fra le donne…..
Non dimentichiamo mai, non finiamo mai di meditare l’Ave.
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“A queste parole Ella rimase turbata e,
si domandava che senso avesse un tale saluto.
L’Angelo le disse: “Non temere, Maria,
perché hai trovato grazia presso Dio.
Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù.
Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo;
il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e,
regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”.
Allora Maria disse all’Angelo: “Come è possibile? Non conosco uomo”.
Le rispose l’Angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di Te,
su Te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo.
Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio”.
(Luca 1,29-35)
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Tutti conosciamo la spiegazione biblica del male,
del dolore, della morte che è nel mondo;
sappiamo che la causa del male,
che si è instaurato nella nostra natura umana,
risale a un peccato originale, a una frattura,
a una specie di scelta fondamentale dell’uomo,
che si è direttamente staccato da Dio scegliendo la strada di se stesso.
Ma Dio non ha abbandonato l’uomo.
Nella sua misericordia,
ha guardato la miseria a cui l’uomo era destinato e gli ha
lasciato la speranza; la speranza della salvezza,
che sarebbe venuta da una donna.
Questa speranza entra nella storia dell’umanità,
proprio all’inizio del mondo.
Quando Adamo ha peccato e si nasconde,
Dio lo cerca: “Adamo, dove sei?”.
Questo Dio, che sempre ricerca l’uomo,
si mette sulle tracce di Adamo,
perché non vuole che l’uomo dovendosi allontanare,
dovendo fare l’esperienza del rifiuto di Dio,
dovendo imparare che generare è soffrire,
che lavorare è sudare, che camminare sulle strade
significa insanguinarsi fra le pietre e le spine,
non vuole che l’uomo esca dal Paradiso terrestre senza un dono,
un dono immenso.
Nella sua misericordia, Dio regala all’umanità peccatrice Maria,
l’Immacolata:
“Porrò inimicizia fra te e la donna, dice al serpente,
fra il tuo seme e il seme di Lei;
Essa ti schiaccerà la testa.
Ed è l’irreversibile vittoria del bene sul male.
Ognuno di noi conserva nel proprio segreto qualche debolezza personale.
In fondo a quell’abisso, dove noi nascondiamo il nostro “Io”,
nel fondo della nostra miseria, dei nostri limiti,
là si comincia a capire Maria,
l’unica creatura libera dal peccato originale, esente da ogni macchia,
più pura del cristallo, luminosa fin nel profondo.
Tutti, come poveri peccatori, ci presenteremo a Dio.
Ma in questa immensa processione di peccatori,
alla testa di essa, c’è Lei;
per ridare a questa nostra umanità peccatrice il conforto della speranza,
la garanzia della riabilitazione dal peccato.
La porta del Cielo è Lei, Lei senza colpa.
È chiaro; che in Maria il peccato non vive,
perché c’è in Lei la morte del peccato, c’è Cristo.
Tutta la ragione dell’Immacolata Concezione di Maria,
è nella sua divina maternità;
è questa divina maternità che forma la dignità più alta di Maria,
perché esige che Maria abbia una santità senza misure, elevata sopra a tutti,
gli Angeli e i Santi, come si addice alla Madre di Colui che è la Santità stessa.
Mistero dolce e profondo;
Maria avanza innanzi alla triste schiera dei figli di Adamo,
immacolata e radiosa:
“Come una rosa tra le spine,
così brilla la mia diletta in mezzo ai figli di Adamo”.
Il Regno dei Cieli sulla terra inizia con l’Ave Maria di Gabriele.
Il suo termine non sarà che un’Ave trionfante alla Madre della salvezza.
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“Vedi; anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia,
ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei,
che tutti dicevano sterile; nulla è impossibile a Dio”.
Allora Maria disse: “Eccomi, sono la serva del Signore,
avvenga di me quello che hai detto”.
E l’Angelo partì da Lei. (Luca 1.36-38).
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C’è il mistero dell’Annunciazione a Maria,
ma c’e anche il mistero dell’annunciazione che riceviamo noi,
nella nostra vita.
noi non ce ne accorgiamo,
ma milioni di angeli passano nella nostra storia personale,
a portarci un’annunciazione, a portarci il messaggio di Dio.
Non sarà l’Arcangelo Gabriele come a Maria, ma c’è un angelo,
c’è un annuncio che il Signore ci manda;
ce lo manda attraverso gli uomini,
attraverso un’emozione del cuore, una gioia o un dolore.
Quest’annuncio è un atteggiamento
permanente di Dio verso ciascuno di noi.
L’annunciazione non è soltanto l’evento di Nazareth;
è un evento perenne della nostra vita.
Guai a noi se diremo di non avere avuto delle annunciazioni.
Avremo una coscienza sorda,
un cuore chiuso alla percezione del messaggio,
che un Angelo continuamente ci porta da parte di Dio.
Allora facciamo attenzione,
cerchiamo di capire questi segni del Cielo che sono le annunciazioni.
Chiediamo a Maria questa grazia, perché ci possiamo accorgere di
questo passaggio d’ali nella nostra vita.
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Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe,
prima che andassero a vivere insieme,
si trovò incinta per opera dello Spirito Santo.
Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla,
decise di licenziarla in segreto.
Mentre però stava pensando a queste cose,
ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse:
“Giuseppe, figlio di Davide,
non temere di prendere con te Maria, tua sposa,
perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo.
Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù;
Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”.
Tutto questo avvenne perché si adempisse
ciò che era stato detto dal Signore,
per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio
che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi”.
Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva
ordinato l’angelo del Signore e,
prese con sé la sua sposa, la quale, senza che egli la conoscesse,
partorì un figlio, che egli chiamò Gesù. (Matteo 1.18-25)
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Dio entra nella storia degli uomini attraverso il Fiat della,
Vergine Maria.
Ma c’è un altro Fiat che accompagna quello di Lei;
è il Fiat di Giuseppe.
Giuseppe era un uomo giusto, ci dice la Scrittura.
Nel suo significato biblico, il “giusto”
è colui che è fedele e osserva la legge di Dio.
Maria, Vergine colma della Grazia e della presenza del Signore,
e a Giuseppe uomo giusto, Dio chiede un Fiat,
che è una fede incrollabile nei misteriosi disegni divini,
è una spada che trapasserà i loro cuori,
è un calvario che inizierà subito,
con la stalla di Betlemme e la fuga in Egitto.
Ma Maria e Giuseppe pronunciano umilmente questo Fiat,
ed entrano nel piano di Dio, nella storia della salvezza.
Credo che ognuno di noi abbia più di una volta fatto esperienza,
che il piano di Dio si è imposto nella nostra vita,
sovrastando il nostro piano.
E noi non abbiamo saputo acconsentire al piano di Dio.
Con troppa leggerezza rispondiamo durante la Messa:
“Rendiamo grazie a Dio”.
Ma poi, quando Tu o Dio, intervieni nella mia vita con certe prove,
con certi dolori, con situazioni che non combinano con la mia logica,
o con il mio cuore o con i miei desideri o
con i miei sogni o con le mie speranze,
allora sono coerente con le mie parole?
Rendo davvero grazie a Dio?
Mi conservo fedele, oppure mi allontano?
È triste arrivare al termine della propria esistenza,
senza aver saputo accettare il progetto di Dio;
essersi ribellati, induriti, urtati contro il progetto di Dio.
E quindi aver vissuto senza pace interiore;
perché la pace vera la sentiamo entrando
sia pure faticosamente nella volontà di Dio;
la pace è dove è il piano di Dio; la pace si trova lasciando fare a Dio,
come ha fatto Maria, come ha fatto Giuseppe.
Che i due grandi fiat di Nazareth, i due grandi obbedienti di Nazareth,
ci aiutino a chinare la testa dolcemente, fiduciosamente,
ogni volta che Dio ha per noi un disegno diverso dal nostro.
Ci aiutino a dire “Sì” per la vita di ieri,
per quella di oggi e per la nostra vita di domani;
a dire “Sì” per sempre, anche per le prove che non abbiamo accettato ieri,
ed anche per le prove di domani.
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In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e,
raggiunse in fretta una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta.
Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria,
il bambino le sussultò nel grembo.
Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce:
“Benedetta Tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!
A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?
Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi,
il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo.
E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore”.
(Luca 1.39-45).
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Fino ad ora, abbiamo meditato su questa
fanciulla di Nazareth ardente di amore,
abbagliante di purezza, abbiamo meditato sull’Angelo Annunziante,
che recita per la prima volta nella storia l’Ave Maria;
abbiamo meditato sull’umile disponibilità di Lei, che risponde:
“Ecco l’ancella del Signore”.
Ora meditiamo con amore anche sul tempo che segue subito dopo.
Maria è divenuta madre di Dio per opera dello Spirito Santo;
è divenuta il primo ostensorio che racchiude il Santissimo,
il primo ostensorio al mondo, la prima custodia di Lui.
Ma dov’è Dio, lì è carità e amore.
E Maria allora per carità e amore,
si reca in fretta nella regione montuosa,
in una città di Giuda,
per aiutare la cugina Elisabetta che aveva bisogno di Lei.
È stata questa, nella storia, la prima processione del Corpus Domini,
il canto dei pastori, il belato degli agnelli, il luccicare delle prime stelle,
l’aroma dell’ulivo, fu il primo incenso che si levò al cielo per Lui.
In alto i cuori; Maria è madre, Maria è Madre di Dio!
Ma il mistero dell’Incarnazione non si esaurisce a Nazareth.
L’evento di Nazareth diventa realtà palpitante,
ogni volta che si celebra la Messa.
In ogni Messa è Nazareth.
In ogni Messa è il dono meraviglioso che Maria,
ci ha ottenuto con la sua risposta a Dio e la sua risposta agli uomini:
“Sia fatto di me secondo la tua Parola”.
Sull’Altare, nell’Eucaristia, Dio assume carne e sangue umano.
Questo dono continuato del corpo e sangue di Cristo,
ci è arrivato attraverso il corpo e il sangue di Maria.
Quando questo dono, quest’Ostia scenderà in noi nella comunione,
custodiamola anche noi nell’ostensorio del nostro corpo,
portiamola in processione nel nostro cammino quotidiano.
Contemplando Maria capiamo che l’Eucaristia è nata lì,
nel grembo Verginale di Maria,
che col suo Fiat ha dato la vita a Gesù,
il quale poi la istituita nella notte dei tempi,
durante l’ultima Cena che per noi diventerà la nostra; "Cena perenne".

Gesù è l'acqua Viva che depura la nostra anima dal peccato

Per tanto tempo sono stato a girovagare senza una meta precisa,
anche fra i meandri del male senza accorgermi,
che stavo sprofondando sempre più nel baratro della morte interiore.
Avevo sete ma nessuno mi dava da bere,
sapevo e conoscevo dove poter attingere acqua,
ma avevo paura di compromettermi e avevo sempre più sete.
Un giorno incontrai Gesù seduto vicino ad un pozzo d'acqua;
e mi disse fuori dai denti: “Chi ha sete, venga a me e beva”.
Gesù lasciò la Giudea e si diresse in Galilea,
attraversando la Samaria si fermò in una città chiamata Sichar
e si fermò al pozzo di Giacobbe e stanco del viaggio vi si sedette vicino.
Era verso mezzogiorno.
Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua.
Le disse Gesù: “Dammi da bere”.
I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi.
Ma la samaritana gli disse.
“Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me,
che sono una donna samaritana?”.
I giudei infatti non mantenevano buone relazioni con i samaritani.
Gesù le rispose:
“Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice;
"dammi da bere!",
tu stessa gliene avresti chiesto ed Egli ti avrebbe dato acqua viva”.
Gli disse la donna:
“Signore, tu non hai mezzo per attingere e il pozzo è profondo;
da dove hai dunque quest’acqua viva?
Sei Tu forse più grande del nostro padre Giacobbe,
che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo gregge?”.
Rispose Gesù:
“Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete;
ma chi beve dell’acqua che Io gli darò, non avrà mai più sete,
anzi, l’acqua che Io gli darò diventerà in lui sorgente
di acqua che zampilla per la vita Eterna”. (Giovanni 4,7-14)
MEDITAZIONE.
Ci sono delle ragazze che quando passano, attirano gli sguardi di tutti,
al giorno d’oggi poi, cercano di scoprire il più possibile per farsi notare e,
tutti si girano, fanno sorrisi, a volte anche di compassione;
saranno pur belle, ma ci sanno anche fare,
si riempiono di pomate e trucchi,
perché vogliono dare un messaggio di bellezza, di grazia,
ma poi se le vedi al mattino quando sono senza trucco,
purtroppo fanno pena.
Però non necessariamente occorre pensare male,
anche se tante volte vedendo quello che succede ne è quasi d’obbligo,
ma se la bellezza è naturale e pulita è sempre grazia di Dio.
Nel Vangelo c’è una donna che quando passa, tutti si girano.
Questa però è troppo superficiale, ha una vita chiacchierata,
non è certo una buona madre di famiglia,
(quante c’e ne sono anche al giorno d’oggi),
anche se deve lavorare e tenere in ordine la casa.
Ha passato in rassegna troppi mariti per essere solo sfortunata.
Un giorno va a prendere acqua al pozzo della città e ci trova Gesù.
È un pozzo famoso, risale al patriarca Giacobbe.
È una ricchezza per la città di Samaria.
Gesù è lì accaldato e stanco, da solo,
mentre i discepoli sono in giro per raccattare qualcosa da mangiare.
Gesù, le si rivolge, come fa spesso nei suoi dialoghi:
“Donna dammi da bere”.
La donna non si sente soggiogata e rispose;
come ti permetti di chiedermi da bere, tu che sei un giudeo e che,
come tutti i tuoi, hai chiuso ogni rapporto con i samaritani?
Gesù è stato deciso perché voleva andare oltre.
Ha letto nel cuore di quella povera donna tutta la sua sete di felicità,
tutte le strade che ha percorso per trovarla,
tutti gli inganni di cui è stata vittima e tutti i fallimenti che ha subito.
Gesù le legge la sua telenovela,
i suoi passaggi di uomo in uomo, di marito in marito,
la sua superficialità e l’incapacità di guardarsi dentro,
di fermare la sua corsa verso il nulla.
È una donna che ha smarrito la sorgente dell’amore,
come tanti di noi, che viviamo di tentativi, di prove,
di aggiustamenti, di .
Di questa sorgente ha bisogno;
della sorgente dell’Amore Misericordioso.
Se tu conoscessi il dono di Dio e se sapessi chi ti chiede da bere,
chiederesti tu l’acqua che zampilla per una vita piena,
non per rattoppi di sopravvivenza.
La donna è colpita dalla chiarezza e dalla forza di verità che emana Gesù.
Vorremmo tutti essere guardati dentro da Lui,
riuscire a farci fare la radiografia e,
farci leggere nel nostro intimo la voglia di felicità,
fare chiarezza nelle bufale in cui incorriamo e
che spesso rifiliamo agli altri, sconfiggere la nostra incoscienza,
il nostro sorriso superficiale ed ebete che scambiamo per serenità,
ma che nasconde l’imbarazzo di una vita a brandelli!
Non sappiamo se ha cambiato,
sappiamo però che ha messo in piazza i suoi errori e ha
convinto le persone che incontrava ad andare da Gesù.
Va dicendo; io sarò quel che voi ben sapete e sempre mi rinfacciate,
ma di una cosa dovete assolutamente convincervi,
quel Gesù di cui tutti parlano è davvero la fine del mondo,
non ve lo lasciate scappare,
non state bloccati nei vostri pregiudizi.
Non stiamo tutti aspettando una vita nuova?
Non siamo sempre in attesa di un cambiamento, di una salvezza,
di una svolta nella nostra storia e nella nostra vita?
Potrebbe essere allora, proprio Lui questa salvezza.
Andiamo allora al pozzo del suo Amore Misericordioso,
ad attingere a piene mani quell’acqua pura che ci da,
refrigerio al corpo e salute all’anima,
nel suo Santuario dell’Amore Misericordioso a Collevalenza (PG).
Là troveremo l’acqua donataci da Lui,
che cambierà la nostra esistenza.

domenica 14 marzo 2010

Il figliol Prodigo

Questo è quello che è capitato anche a me,
finchè me ne sono rimasto lontano,
lontano da quella casa che mi stava stretta e mi soffocava,
per il semplice fatto che ritenevo di essere indipendente,
di farcela da solo, di essere bravo e saper arrangiarmi,
fino a quando non toccai il fondo della disperazione e mi
accorsi di avere sbagliato completamente strada,
di essermi allontanato da casa e aver perso l'orientamento,
pensando di non riuscire più a ritrovare
la via giusta per ritornare a casa.
Ma mi accorsi anche che quel Padre che avevo lasciato,
Lui non mi aveva mai perso di vista e ancora una volta,
mi indicò la strada di casa!
LA PARABOLA
Sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto.
Quando ebbe speso tutto,
in quel paese venne una grande carestia,
ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno,
allora andò e si mise a servizio di uno
degli abitanti di quella regione,
che lo mandò nei campi a pascolare i porci,
avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci,
ma nessuno gliene dava.
Allora rientrò in sé stesso e disse:
“Quanti salariati in casa di mio Padre hanno pane in abbondanza
e io qui muoio di fame!
Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò:
Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te,
non sono più degno di essere chiamato tuo figlio,
trattami come uno dei tuoi garzoni”.
Partì e si incamminò verso suo Padre!
MEDITAZIONE
Il giovane abbracciato e benedetto dal Padre,
è un uomo povero, molto povero.
Ha abbandonato la propria casa con tanto orgoglio e denaro,
deciso a vivere la sua vita lontano dal padre e dalla comunità,
ritorna con niente, il denaro, la salute, l’amore,
il rispetto di sé, la reputazione……ogni cosa è stata sperperata.

nella foto dell'abbraccio del Padre al figliol prodigo,
vedo davanti a me un uomo che se né andato lontano
in un paese straniero e ha perso tutto ciò che aveva con se,
in lui vedo vuoto, umiliazione e sconfitta,
lui che era tanto simile al padre,
ora sembra peggiore dei servi di suo padre, è diventato uno schiavo.
Che cosa è accaduto al figlio nel paese lontano?
A parte tutte le conseguenze materiali e fisiche,
quali sono state le conseguenze interiori per essersi allontanato da casa?
La serie di eventi è piuttosto prevedibile,
più corro lontano dal luogo in cui Dio dimora,
meno sento la voce che mi chiama, “figlio prediletto”,
e meno sento quella voce, più rimango invischiato
nelle manipolazioni e nei giochi di potere del mondo.
Le cose stanno più o meno in questo modo,
non sono più certo di avere una casa sicura,
e osservo altra gente che, fuori sembra stare meglio di me;
chiedo come posso arrivare dove stanno loro,
cerco in mille modi di piacere, di raggiungere il successo e gli onori,
quando fallisco mi sento geloso e risentito nei confronti degli altri;
quando ho successo, mi secca che gli altri possano essere gelosi
o risentiti nei miei confronti;
“ECCO L’INVIDIA” .
Divento sospettoso mi metto sulla difensiva e ho
sempre più paura di non raggiungere ciò
che tanto desidero o di perdere ciò che già ho.
Impigliato in un groviglio di esigenze e desideri,
non conosco più le mie stesse motivazioni,
mi sento ingannato dal mio stesso ambiente e
diffidente di ciò che gli altri fanno o dicono, sempre in guardia,
perdo la mia libertà interiore e comincio a dividere il
mondo in coloro che sono per me e coloro che sono contro di me;
mi chiedo se veramente qualcuno si interessa di me;
comincio a cercare conferme alla mia diffidenza e,
dovunque vada, ne ho la prova e dico; “non ci si può fidare di nessuno”,
e poi mi chiedo se qualcuno mi abbia mai amato,
il mondo intorno a me diventa oscuro, il cuore si fa pesante,
il corpo è pieno di dolori, la vita perde significato.
Sono diventato un’anima perduta.
Il figlio più giovane si rese pienamente conto della sua totale rovina,
quando più nessuno nel suo ambiente,
mostrò il minimo interesse nei suoi confronti.
Lo avevano tenuto in considerazione soltanto finche
era stato utile ai loro interessi,
ma quando non ebbe più denaro da spendere e doni da fare,
per loro cessò di esistere,
non è difficile immaginare cosa significhi
essere un individuo del tutto estraneo,
una persona cui nessuno mostra un qualche segno di riconoscimento.
La vera solitudine arriva quando non si riesce più
a sentire di avere delle cose in comune,
quando nessuno voleva dargli il cibo che lui stesso distribuiva ai maiali,
il figlio più giovane si accorse di
non essere considerato nemmeno un essere umano:
“ECCO LA DESOLAZIONE”.
In quel momento sentì tutto il vuoto del suo isolamento,
la solitudine più profonda di cui l’uomo possa fare esperienza;
era davvero perduto, ma fu questa sensazione,
di essere completamente perduto a farlo rientrare in se stesso.
Fortemente scosso dalla consapevolezza della sua totale nullità,
capì immediatamente di essersi imbarcato in un’avventura di morte,
si era talmente sradicato da ciò che dà vita e cioè;
si rese conto che la morte sarebbe stata il fatale prossimo passo.
All’improvviso vide con chiarezza il sentiero che aveva scelto
e dove questo lo avrebbe condotto; capì la sua scelta di morte;
e intuì lucidamente che un altro passo ancora nella direzione
che stava seguendo lo avrebbe portato all’autodistruzione,
in quel momento critico, quale molla gli fece scegliere la vita!
Fu la riscoperta della parte più profonda di se stesso.
Il significato del ritorno del figlio più giovane è condensato nelle parole:
“Padre…..non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”.
Da un lato il figlio più giovane si rende conto
di aver perso la dignità della sua condizione di figlio,
ma allo stesso tempo quel senso di dignità perduta gli fa capire,
che egli è davvero il figlio che aveva una dignità da perdere.
Il ritorno del figlio più giovane avviene proprio nel
momento in cui recupera la sua condizione di figlio,
anche se ha perso tutta la dignità che le è propria,
infatti è stata la perdita di ogni cosa a portarlo alla radice della sua identità,
ha scoperto il fondamento della sua condizione di figlio,
in definitiva sembra che il figlio abbia dovuto perdere ogni cosa,
per conoscere il significato profondo del suo essere,
quando si è trovato a desiderare di essere trattato come uno dei porci,
si è reso conto di non essere un porco, ma un essere umano,
un figlio di suo padre, il rendersi conto di questo è diventato
la base della sua scelta di vivere invece di morire.
Tornato di nuovo a contatto con la verità della sua condizione di figlio,
ha potuto udire-----anche se in modo appena percepibile---
la voce che lo chiamava, “figlio prediletto”,
e sentire sebbene da lontano il tocco della benedizione,
la consapevolezza e la fiducia nell’amore del padre,
per quanto possano essere stati confusi,
gli hanno dato la forza di rivendicare la propria condizione di figlio,
anche se tale rivendicazione non poteva basarsi su alcun merito.
Quante persone per ascoltare un presunto amico si perdono,
non riconoscono più la casa paterna e se ne vanno lontano e ci rimangono,
finche dopo aver sperperato tutti i beni avuti,
magari ridotti in un tunnel senza uscita,
perché i presunti amici si erano volatilizzati e pensando come stavano bene prima,
si sono messi in ascolto, magari più per disperazione che per volontà e,
riuscendo nella disperazione a trovare magari
un amico di quelli veri che con pazienza,
è riuscito a fargli risentire quella flebile voce che dice:
“Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”.
È un’esperienza dolorosa perché per capire devi precipitare fino in fondo,
d’altra parte è una nostra scelta, perché Dio dice:
“Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione;
scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza,
amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti vicino a Lui….”!
In effetti è una questione di vita o di morte,
vogliamo accettare il rifiuto del mondo che ci imprigiona,
oppure rivendicare la libertà dei figli di Dio?
A noi la scelta!
Giuda ha tradito Gesù!
Pietro lo ha rinnegato!
Entrambi sono diventati figli perduti!
Giuda, non riuscendo più a sostenere la verità
di non essere per sempre figlio di Dio,
si è impiccato, perciò ha venduto anche la sua condizione di figlio,
praticamente non ha creduto nella Misericordia del Padre.
Pietro, nel colmo della sua disperazione,
l’ha rivendicata ed è tornato piangendo molte lacrime.
Giuda ha scelto la morte!
Pietro ha scelto la vita!
Dobbiamo renderci conto che questa scelta è sempre davanti a noi,
siamo continuamente tentati di cadere nello smarrimento e
di perdere contatto con la nostra umanità dataci da Dio,
con le beatitudini fondamentali della vita che ci è stata donata e,
così lasciamo che le forze della morte prendano il sopravvento.
Questo succede sempre ogni volta che diciamo a noi stessi:
“Non siamo buoni, siamo inutili, non valiamo niente,
siamo antipatici, non siamo nessuno”.
Ci sono sempre un’infinità di eventi e di situazioni
che possiamo scegliere per convincerci che la nostra vita
non vale la pena di essere vissuta, che siamo solo un peso o un problema,
molte persone vivono con questo oscuro senso interiore,
e a differenza del figlio prodigo, lasciano che l’oscurità li avvolga
in modo così totale che non rimane loro alcuna luce per girarsi indietro
e tornare, possono anche non uccidersi fisicamente,
ma spiritualmente non sono più vivi, hanno abbandonato la fede
nella propria bontà originale e,
perciò anche nel Padre cui devono la loro umanità.
Ma quando Dio creò l’uomo e la donna a sua immagine e,
vide che quanto aveva fatto, “era cosa molto buona”,
e nonostante le voci oscure, né uomo né donna potranno
mai cambiare quell’evento.
Scegliere la nostra condizione di figli,
non è comunque facile, le voci oscure del mondo che ci
circonda cercano di persuaderci,
che non siamo buoni e che possiamo diventarlo
soltanto se ci conquistiamo la nostra bontà
arrampicandoci sulla scala del successo,
queste voci ci conducono ben presto a dimenticare la voce che ci chiama,
“figlio mio prediletto”, e che ci ricorda che siamo amati
indipendentemente da qualsiasi applauso o risultato,
queste voci oscure soffocano quella voce gentile,
tenue e luminosa che continua a chiamarci, “il mio prediletto”,
ci trascinano alla periferia della nostra esistenza e ci fanno dubitare,
che c’è un Dio che ama e che ci aspetta proprio al centro del nostro essere.
Ma lasciare il paese straniero è soltanto l’inizio,
la strada verso casa è lunga e ardua,
che fare allora lungo la strada del ritorno al Padre?
Ciò che fa il figlio prodigo è chiaro, appena è cambiato,
prepara una specie di sceneggiata, e ricordando la sua condizione di figlio,
dice a se stesso: “Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò:
Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te,
non sono più degno di essere chiamato tuo figlio,
trattami come uno dei tuoi garzoni”.
Il ritorno del figlio prodigo è pieno di ambiguità,
sta camminando nella direzione giusta, ma che confusione,
ammette di non essere stato capace di farcela da solo,
deve chiedere scusa del suo comportamento e non è sempre facile,
ma che comunque forse riceverà un trattamento migliore
come servo nella casa del padre, che come esule in una terra straniera,
ma è ancora lontano dall’aver fiducia nell’amore del padre.
Sa di essere sempre figlio, ma dice a se stesso di aver
perso la dignità di essere chiamato, “figlio”
e si prepara ad accettare la condizione di,
“garzone” per poter almeno sopravvivere.
Il suo è pentimento, ma non un pentimento alla luce
dell’immenso amore di un Dio che perdona,
è un pentimento a suo uso e consumo,
che gli offre le possibilità di sopravvivere,
questo stato della mente e del cuore, è come dire;
“beh, non ce l’ho fatta da solo, devo riconoscere che Dio
è l’unica risorsa che mi sia rimasta, andrò da lui e chiederò perdono,
nella speranza di ricevere una punizione minima,
che mi sia consentito almeno di sopravvivere, in cambio di un duro lavoro”.
Dio allora secondo noi rimane un Dio duro e pronto a giudicare,
è questo Dio che ci fa sentire colpevoli, preoccupati e,
che rievoca in noi tutte queste scuse a nostro uso e consumo,
la sottomissione a questo Dio non crea una vera libertà interiore,
ma genera solo amarezze, risentimento e magari la volontà che,
appena capita l’occasione me ne andrò di nuovo.
Allora non ho ancora conosciuto il vero Dio.
Una delle più grandi provocazioni della vita spirituale
è ricevere il perdono di Dio,
c’è qualcosa in noi esseri umani che ci tiene tenacemente
aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che
Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completamente
nuovo, che è la mancanza di confidenza e di fiducia in Lui.
Qualche volta sembra persino che vogliamo dimostrare a
Dio che le nostre tenebre sono troppo grandi per essere dissolte,
mentre Dio vuole restituirci la piena dignità di figli,
invece noi continuiamo ad insistere che ci sistemerà come garzoni.
Ma vogliamo davvero essere restituiti alla piena responsabilità di figli?
Vogliamo davvero essere totalmente perdonati,
in modo che sia possibile una vita del tutto nuova?
Abbiamo fiducia in noi stessi e in una redenzione così radicale?
Vogliamo rompere con la nostra ribellione
profondamente radicata contro Dio ed arrenderci
in modo così assoluto al suo amore,
da far emergere in noi persone veramente nuove?
Ricevere il perdono esige la volontà totale di lasciare che
Dio sia Dio e compia ogni risanamento, reintegrazione e rinnovamento.
Però fin quando vogliamo fare anche soltanto una parte di tutto questo da soli,
ci accontentiamo di soluzioni parziali, come quella di diventare garzoni;
perché come garzoni possiamo ancora mantenere le distanze,
ribellarci, rifiutare, scioperare, scappare via o lamentarci della paga.
Come figli prediletti dobbiamo rivendicare la nostra piena dignità e
cominciare a prepararci a diventare noi stessi il Padre.
È chiaro che la distanza tra l’inizio del ritorno e l’arrivo a
casa deve essere percorsa con saggezza e disciplina,
la disciplina è quella di diventare un figlio di Dio,
Gesù dice espressamente, che la via verso
Dio è identica a quella verso una nuova infanzia:
“Se non vi convertirete e non diventerete come bambini,
non entrerete nel regno dei cieli”.
Gesù non ci chiede di rimanere dei bambini, ma di diventare dei bambini.
Diventare un bambino significa vivere una seconda giovinezza;
non l’innocenza del neonato, ma l’innocenza a cui
si arriva attraverso scelte consapevoli.
Come possono essere descritti coloro che sono giunti a
questa seconda infanzia, a questa seconda innocenza?
Gesù lo dice molto chiaramente nelle Beatitudini.
Poco dopo aver sentito la voce che lo chiamava il Prediletto e
subito dopo aver respinto la voce di satana che lo tentava a
dimostrare al mondo che era degno di essere amato;
comincia il suo ministero pubblico,
uno dei suoi primi passi è chiamare dei discepoli a seguirlo e a
partecipare al suo ministero, quindi Gesù sale sulla montagna,
raduna i discepoli intorno a sé e dice:
“Beati i poveri in spirito, perchè di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti, perchè saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e,
mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
”Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli".
Queste parole presentano un ritratto del Figlio di Dio.
È un autoritratto di Gesù, il Figlio prediletto,
è anche un ritratto di come dobbiamo essere noi se vogliamo sentirci,
figli prediletti.
Le Beatitudini ci offrono la via più semplice per il viaggio verso casa,
per il ritorno alla casa di nostro Padre.
E lungo questa via scoprirò le gioie della seconda infanzia;
la serenità, la misericordia e una visione sempre più chiara di Dio e,
appena giungerò a casa e sentirò l’abbraccio di mio Padre,
mi renderò conto che non soltanto il cielo potrò rivendicare come mio,
ma che anche la terra diventerà mia eredità,
un luogo dove poter vivere in libertà senza ossessioni e costrizioni.
Diventare figlio, significa vivere le Beatitudini e trovare,
così la porta stretta per l’accesso al Regno;
il ritornare e gettarsi fra le braccia del Padre, vuol dire,
ritornare nel grembo di Dio che è insieme, Madre e Padre!
Perciò vuol dire ritornare bambini, perché il bambino piccolo non è forse povero,
mite e puro di cuore?
Il bambino piccolo non piange per ogni piccolo dolore?
Il bambino piccolo non è l’operatore di pace che ha fame e sete
della giustizia e la vittima ultima della persecuzione?
Vediamo anche che è quello che paga i tanti errori di noi adulti…..
guardiamoci attorno e riflettiamo un attimo, quanti bimbi sono maltrattati,
abbandonati peggio degli animali e purtroppo,
quanti gettati via come immondizia o addirittura uccisi.
Ecco cosa vuol dire diventare come bambini,
perché se rimaniamo adulti in balia delle onde del mondo e del male,
purtroppo queste stragi ci saranno sempre, anzi molto
probabilmente aumenteranno perché il mondo, con i
suoi luccichii ci farà sempre più sprofondare!
E che dire dello stesso Gesù, la parola di Dio che si è fatta carne,
ha dimorato per nove mesi nel grembo di Maria,
ed è venuto in questo mondo come un piccolo bambino,
è stato adorato dai pastori giunti da vicino e da uomini saggi arrivati da lontano!
Il Figlio Eterno si è fatto Bambino perché anche noi possiamo
diventare di nuovo bambini e così rientrare con Lui nel Regno del Padre.
Gesù disse un giorno a Nicodemo: “In verità, in verità ti dico,
se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il Regno di Dio!”