VIAGGIAMO SULLE ALI DELLA MISERICORDIA

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domenica 6 gennaio 2013

La clandestinità e il nascondimento di Gesù

Finite le feste, i Magi se ne tornano a casa,
ma sulla Famiglia di Nazareth, incombe
una nuova minaccia e devono scappare,
andare in esilio forzato.
La ragione della fuga in Egitto è di ordine politico;
Erode il grande, dopo la visita dei magi,
decise di far uccidere i bambini di Betlemme.
Così Giuseppe dovette fuggire verso l’Egitto e,
dopo la morte di Erode, avrebbe prudenzialmente
scelto di trasferirsi definitivamente al nord,
essendoci nei paraggi i figli del re tiranno.
La cosa essenziale, però, è che Gesù inizia da profugo la
propria brillante carriera di Messia.
Sinceramente, alla fine del tempo di Natale,
nella liturgia, inserirei due celebrazioni festive domenicali,  ricordando la festa
della fuga in Egitto e la  solennità del silenzio di Nazareth.
È un brano che tutti, dimenticano.
Meno male che Matteo ce ne parla.
Dopo la partenza dei magi, ecco che un angelo del Signore apparve
in sogno a Giuseppe e gli disse: “Su, alzati, prendi con te il bambino
e sua madre e fuggi in Egitto e rimani lì fino a mio nuovo avviso.
Erode infatti è in cerca del bambino per ucciderlo”.
Egli si alzò, prese con sé il bambino e sua madre, nella notte, e partì per l’Egitto.
Lì rimase fino alla morte di Erode.
Questo affinchè si adempissero quanto fu annunciato dal Signore per mezzo
del profeta che dice: “Dall’Egitto ho richiamato mio Figlio” (Matteo 2,13-15).
Giuseppe fugge in Egitto con la famiglia.
Giuseppe deve fuggire perché il bambino è minacciato di morte.
L’inizio della vita di Gesù, si realizza in un clima di precarietà e di clandestinità.
Dio si mette dalla parte dei perdenti, ancora una volta.
Dio sa le miserie, le fatiche, i dolori, gli abissi di solitudine e
di paura che abitano il cuore degli uomini.
E chiede a noi di farcene carico.
Giuseppe ha trovato un lavoro in nero, sottopagato, e Maria, probabilmente,
ha dovuto subire le umiliazioni di chi abita in un paese
straniero ed è guardato con disprezzo.
Hanno abitato in qualche alloggio decrepito,
affittato da qualche usuraio a prezzo spropositato.
Niente di nuovo sotto il sole.
Quando vediamo i disperati accanto a noi, facciamo memoria del Dio
che ha conosciuto anche il dolore dell’essere straniero.
E nell’accoglierli, magari con diffidenza,
è un gesto uguale a quello che fecero gli egiziani con Gesù.
Il mondo non lo salviamo noi; è già salvo. Ma non lo sa.
Quello che possiamo fare è vivere da salvati,
comunicare un po’ di salvezza con la nostra vita.
Giuseppe e Maria, tornano dall’Egitto e si trasferiscono a Nazareth.
E qui inizia la pagina più splendida e misteriosa della vita di Gesù.
Conosciamo tutti, (o dovremmo conoscere),
l’attività di predicazione di Gesù; tre anni intensi, iniziati in Galilea
e drammaticamente conclusasi a Gerusalemme.
Nulla invece sappiamo dei trent’anni precedenti,
vissuti nel nascondimento di Nazareth.
Non sappiamo nulla del novanta per cento della vita di Gesù.
A parte la simpatica parentesi del preadolescente Gesù che resta a
curiosare nel tempio di Gerusalemme, dopo essere brillantemente
diventato adulto, (praticamente, Figlio del comandante),
attraverso un rito che sanciva il passaggio alla comunità adulta,
nulla ci viene detto degli anni di Nazareth.
Un silenzio quasi imbarazzante, che sta probabilmente all’origine,
di illazioni semiserie fornite nei vangeli apocrifi.
Dobbiamo arrenderci all’evidenza; non sappiamo nulla di quegli anni.
Possiamo però immaginare la vita di una coppia
con un figlio nella Palestina di duemila anni fa.
I primi faticosi anni di crescita di un bimbo,
Maria che insegna a Dio a camminare, a parlare, a pregare, a leggere,
(è si, perché in cielo le cosa sono diverse da come sono qui sulla terra,
perciò è giusto fargliele conoscere).
Il ragazzo che si fa grandicello, che impara dal papà il mestiere dell’artigiano
del legno e che si appassiona anche al lavoro, (o finalmente Dio che lavora).
Gesù che cresce, che gioca sulla piazza del paese con i suoi coetanei,
che entra nel mondo degli adulti.
Mi immagino i lunghi sguardi tra Maria e il suo sposo,
che comincia a mettere qualche capello bianco.
Sguardi intensi e silenziosi si posano sul loro figlio
che aiuta ad accendere il fuoco per la cena.
Cosa sta aspettando? Perché è ancora qui? Dicono quegli sguardi!
Niente nulla.
Nei due sposi, magari affiora qualche perplessità,
pensando agli anni della nascita.
E se ci fossimo sbagliati?
Se avessimo interpretato male l’annuncio e i messaggi degli angeli?
Gesù è un giovane che sembra non essere troppo intenzionato a farsi
una famiglia e che non sembra avere grandi prospettive future.
Quanto ci parla questo assordante silenzio di Nazareth!
In quei trent’anni, decine di migliaia di persone, innalzavano il loro
grido di dolore verso Dio, lo imploravano disperati.
Lo strazio di chi vedeva la propria vita ingiustamente minacciata,
saliva verso Dio.
Nei templi, centinaia di sacerdoti, scrutavano i segni della presenza
del divino, cercavano di coglierne gli umori e la volontà.
Milioni di schiavi, catturati in guerra o venduti a causa dei debiti,
concludevano la loro misera giornata invocando
il nome di Dio e chiedendogli un aiuto.
E Dio intanto, che faceva? Sgabelli!
Nazareth ci dice che Dio abita il quotidiano e lo riempie.
Quel quotidiano che tendiamo a fuggire, quel quotidiano in cui
immaginiamo che si perda la nostra vita e si sciupi la nostra vitalità,
quel quotidiano che reputiamo responsabile della nostra fatica esistenziale.
Dio lo abita. E se avesse ragione Dio?
Non abbiamo neppure una parola pronunciata da Giuseppe,
non un giudizio, non una sentenza.
Solo sguardi.
Sappiamo che, con ogni probabilità, Giuseppe è già morto,
quando Gesù inizia il suo ministero pubblico, perché Giovanni non
lo nomina fra gli invitati alle nozze di Cana, (Giovanni 2),
cosa che sarebbe stata naturale, visto che c’erano sua moglie e suo figlio.
La tradizione cristiana ha riflettuto sul fatto che
Giuseppe è morto avendo accanto a sé Maria e Gesù.
Un bel modo di morire, onestamente.
Perciò è stato nominato patrono della buona morte.
Ma il suo silenzio assordante, il suo dileguarsi nel quotidiano,
la sua presenza defilata, l’obbedienza vissuta fino a scomparire,
ne rivelano la statura gigantesca.
Giuseppe è grande, proprio per il suo nascondimento,
per il suo umile servizio al progetto di Dio.
In un mondo chiassoso e rissoso, fatto di persone che sgomitano per
avere un passaggio in televisione, Giuseppe ci insegna il valore della
sostanza, a scapito dell’apparenza.
Giuseppe, per amore della sua sposa, e di Dio, mette da parte la sua vita
e si mette a servizio del quotidiano, in assoluta umiltà.
Uomo concreto, di poche parole, giusto e sognatore, ha dato il suo
nome e la sua conoscenza di artigiano al Figlio di Dio,
ha insegnato a Dio le qualità degli uomini.
Se volete vivere bene il Natale fate come Lui.
Credo che dovremmo tutti ripensare alla nostra vita,
ad accettarla, così, come ci è donata da Dio.
Credo che ora Maria mi stia dicendo, da brava madre, che è ora di pregare.     

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